Recensione: Are You Kidding Me? No.

Di Stefano Burini - 28 Febbraio 2014 - 9:00
Are You Kidding Me? No.
Band: Destrage
Etichetta:
Genere:
Anno: 2014
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80

Ci sono gruppi che hanno un sound ben definito (e molto spesso anche piuttosto derivativo) e ce ne sono altri che traggono, al contrario, la loro linfa vitale proprio dall’incredibile capacità di unire mille e più sonorità ed influenze in un tutt’uno a suo modo completo ed organico.
 
I Destrage, manco a dirlo, fanno parte di questa seconda categoria e se già ai tempi di “The King Is Fat ‘n’ Old” l’etichetta “Metalcore” poteva apparire un po’ restrittiva, il nuovo anno ci consegna una band sempre più matura, conscia dei propri mezzi ed, anzi, ansiosa di portare avanti il cammino esplorativo iniziato nel 2009 con l’interessante “Urban Being”. 
 
Da quei tempi la proposta dei milanesi si è decisamente evoluta nella direzione di una sempre maggiore integrazione tra partiture strumentali di estrazione hardcore/metalcore e melodie a loro modo “orecchiabili”. Se ciò ha, da un lato, portato ad un progressivo alleggerimento del sound, va altrettanto rimarcato che l’incorporamento di venature progressive, quando addirittura non psichedeliche, conferisce al nuovissimo “Are You Kidding Me? No.” una profondità di scrittura invidiabile.
 
La tracklist si divide sostanzialmente in due tronconi, collocando nella prima parte una cinquina dall’impatto assolutamente devastante e riservando alla seconda metà una serie di brani più articolati e “miscellanei”. “Destroy Create Transform Sublimate” mette immediatamente le carte in tavola: riff tritaossa suonati con mano pesantissima, ritmiche svitacollo scandite con estrema precisione e grande potenza da basso e batteria, giù giù fino ad un refrain che, pur nella sua complessità, non fa prigionieri. Un capitolo a parte lo merita poi la voce di Paolo Colavolpe: con le sue mille sfaccettature e la massima padronanza di tutti i registri, ancor più che in passato il vero asso nella manica di un gruppo che può in ogni caso vantare doti tecniche e compositive di altissimo livello. Le sue melodie hanno, infatti, quel quid in grado di rendere i brani catchy senza oltrepassare il limite del ruffiano e contribuiscono a conferire ad ognuno di essi una identità molto marcata, proprio come accade nella N.2 “Purania”, addirittura sfacciata nell’alternare a giri di chitarra di matrice metalcore delle imprevedibili fughe di stampo jazz fino ad un altro ritornello che live farà di certo sfracelli.

Ad ogni buon conto è con il primo singolo “My Green Neighbour” che viene fuori, in tutta la sua forza e concentrata nel volgere di quattro minuti, l’essenza dei Destrage versione 2014: groovy eppur melodici, tamarri ma senza esagerare e con un grandissimo gusto nell’inserire finezze strumentali capaci di impreziosire brani già di per sé molto ricercati sia sul piano compositivo sia su quello strumentale. “Hosts, Rifles & Coke”, prima (ma non ultima) incursione dei milanesi in territori djent, così come la più prog metal-oriented “G.O.D.” proseguono sulla scia delle precedenti, continuando a macinare math/prog/metal/core di elevata caratura per poi lasciare spazio alla psichedelica “Where The Things Have No Color”. Quasi sette minuti di atmosfere desertiche ed arabeggianti, ad onor del vero leggermente fuori centro rispetto alla sostanziale perfezione del quintetto d’apertura a testimoniare che la tenuta sulla lunga durata è forse l’unico aspetto sul quale i meneghini mostrano ancora, talvolta, qualche lieve indecisione.

 
Marciando a grandi passi verso la conclusione incocciamo la frizzantissima “Waterpark Bachelorette” a rielaborare soluzioni e distorsioni di estrazione djent al servizio di un brano al contrario divertente e sbarazzino, seguita dalla successiva “Before After And All Around”, un altro pezzo da novanta in grado di coniugare in un tutt’uno irruenza, violenza e derive prog metal. “Obedience” è, poi, la traccia nella quale risuona maggiormente l’eco di “Urban Being”, seppur con l’aggiunta di elementi inequivocabilmente attuali quali ritmiche sincopate, distorsioni rugginose e inserti al limite della drum ‘n’ bass, mentre chiude alla grandissima l’ambiziosa title track, in grado di cancellare, con i suoi quasi otto minuti di follia messa in musica, le lievi incertezze dell’imperfetta “Where The Things Have No Color”.
 
Più di così sarebbe stato davvero difficile fare: i Destrage si riconfermano band interessantissima e addirittura d’avanguardia a livello internazionale, in virtù di uno stile tanto contaminato quanto immediatamente riconoscibile e caratteristico. Avanti così.

Stefano Burini

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