Recensione: Ark
Nati da un progetto ambizioso quanto riuscito, ma interrotto, arrivano gli Ark.
Una band che per quel poco, in termini di quantità, che è riuscita a darci, rimane tra gli ascolti imprescindibili del Progressive e che con un incisività totalmente diversa da qualsiasi altro gruppo affronta il tema “Musica” rompendo molti stilemi medi appartenenti al Metal, grazie ad un’alchimia superba che poteva nascere solamente dal breve ma felice sposalizio dei suoi membri.
L’ensemble inizialmente chiamato Conception, caratterizzato da un buon Hard rock melodico, si riforma più che arricchisce grazie alla dipartita di John Macaluso dai Tnt e dall’arrivo dai The Snakes di un certo Jorn Lande alla voce.
L’immagine atta a raffigurare la band che si voleva adottare, era quella di una naturalistica “Arca musicale” pensata dai membri degli ex Conception, Tore Østby, su tutti, più Macaluso e Lande. Essa doveva attenersi a quelle che erano le esigenze soliste e collettive, in modo da far risultare la band eclettica ma anche più prettamente tecnica in ogni circostanza.
Il raggiungimento dell’obiettivo si concretizza subito nel 1999 con l’esordio discografico dell’equipe.
Ark è un disco nel quale si può trovare davvero di tutto: Power, Heavy, Aor, Folk, insomma del buon Progressive che nel caso di questo gruppo potrebbe essere organoletticamente rappresentato dalla “Novelle cuisine” francese.
Ambientazioni da cupe a quelle più gioiose si avvicendano con stile e naturalezza senza mai chieder troppo alla tanto agognata tecnica che molti fan (diciamo tifosi) di altre Metal band dette Prog inseguono incessantemente con ardente fervore, pur mantenendo in ogni momento il livello esecutivo “PROGressivamente” alto.
È John Macaluso ad aprire le danze, e lo fa con un introduzione di batteria in stile rumoristico degna del miglior Terry Bozzio, che si va ad intersecare ottimamente con le timide tastiere prima e con le linee vocali di Lande poi, permettendo a “Burning down” d’incominciare a parlare più precisamente di questa band. La sua struttura è complessa, ma non ultrapomposa come potrebbe trasparire dalla descrizione e l’esplosione 70’s che avviene con il ritornello seguito da una tirata Power incalzante al punto giusto, ha un effetto palpitante tutto particolare.
“Where the winds blow” è avvolgente in una maniera esagerata, qua è la voce di Lande ancora una volta a farla da padrona, e l’effetto melodico a tratti dissonante che si evidenzia con i cori centrali e con la chitarra in pulito di Østby è sicuramente più che gradevole. Il ruolo giocato da questa canzone, che rappresenta ideologicamente lo pseudosingolo del platter è di legame con quella successiva; “The hunch back of Notre dame”, che sembra raccontare con la musica stessa l’ira e l’amore che quello strano personaggio all’interno del famoso palazzo parigino nutre verso la capitale francese e suoi abitanti, è dotata di un bellissimo testo, che a questo punto diviene superfluo. Qui aggressività e dolcezza d’arrangiamento si legano e non si contrastano, dando vita ad un connubio quantomai esaltante per la funzionalità del pezzo. Paurosa l’accellerazione che vede protagonisti tutti gli strumenti nel finale.
Anche la terza traccia è legata in qualche modo alla potenza vocale che il norvegese Lande sprigiona in “Singers at the worlds dawn” urlando “Viking! i’m a viking i’m a strong man” ed il resto del pezzo che si aggira su delle ritmiche implosive, si apre perfettamente con la musicalità dell’inciso ed introduce successivamente ad un finale intimo da brivido.
È forse qui che si sente il valore di un chitarrista come Østby, che giace all’interno del disco ammaliando, provocando, accompagnando e arrangiando in maniera quanto più sobria possibile un disco Progressive senza mai esplodere ricordando molto il comportamento di Alex Lifeson? Secondo me sì! L’intro di “Mother love” è ottimo, non lascia spazio a critiche razionali ed infonde nel proprio io una calma infinita che non si smuove nemmeno con la cadenza incessante delle strofe e con il velocissimo prefinale a ritmo di samba. L’interpretazione dei membri, Lande su tutti è calda, anzi incandescente, e anche un normalissimo pezzo di semplice metallo comune sarebbe diventato oro, suonato da questi Ark.
È proprio vero che in questo disco ci si può sensazionalmente perdere: e ce ne accorgiamo quando parte l’elegante ritornello di “Center avenue”, seguito dall’altrettanto essenziale quanto splendido solo di Tore Østby; quando parte l’incessante marcia iniziale sui tom di Macaluso di “Can’t let go” che ci accompagna nelle braccia di una suite che si fa portavoce di un viaggio gitano; quando un’altra volta ancora Jorn Lande apre bocca e ci sussurra il testo prima della liberazione… “I can’t leeeeeet gooo…”; e forse, lasciatemelo dire, anche quando un pezzo dura quasi 10 minuti e non solo non ci annoia, ma ci delizia ascolto dopo ascolto.
Ark è un lavoro che può essere contestato forse per la produzione non eccelsa, a differenza del successivo “Burn the sun”, ed interpretato ovviamente in vari modi da parte di chi lo ascolta, ma un lavoro Progressive così maturo e completo negli ultimi anni è rappresentato veramente da pochi dischi, e mi dispiace dirlo ma tanti tra questi talvolta non sono quelli che i giovani metaller idolatrano. Per questo invito gentilmente all’esperienza uditiva del sovracitato. Buon ascolto!
Tracklist:
01 – Burning down
02 – Where the winds blow
03 – The hunch back of Notre dame
04 – Singers at worlds dawn
05 – Mother love
06 – Center avenue
07 – Can’t let go