Recensione: Armageddon
Nell’accingerci ad analizzare Armageddon, nuovo album di casa Equilibrium, potremmo lasciarci andare a migliaia di considerazioni, ognuna delle quali non è che un pallido tentativo di elidere il vero nocciolo della questione. Potremmo notare, ad esempio, che Armageddon, è il primo disco in cui non figurano, a tutti gli effetti, Andreas Völkl e Sandra Van Eldik, e potremmo chiederci com’è andata questa volta. Poi potremmo riflettere anche sul nuovo cambio di formazione – Makki Solvalt terzo bassista in tre anni.
Ma no, la vera domanda è come abbiano fatto i teutonici a fare un pezzo, senza remore di smentita, osceno, come “Born To be Epic” e a farlo, tra l’altro, singolo apripista. E non si tratta di accanimento gratuito, poiché l’ascolto di Armageddon rapportato a quello del singolo mette in atto diversi processi di ragionamento. Ad esempio il testo: tanto elementare quanto pacchiano, chiunque in prima liceo avrebbe potuto far di meglio. Perché “Born to be epic”, assieme a “Prey”, è una delle prime composizioni in inglese dei nostri.
E queste due brani in inglese sono stati infilati in mezzo a quello che è un concept album. Il titolo fa già capire il tema, l’intro strumentale con recitato in tedesco dice qualcosa di più. A che pro dunque?
In secondo luogo il pezzo mette in luce la classica formula degli Equilibrium, fatta di riff muscolari e tastiere epiche-stadiofoniche, con un retrogusto discotecaro tamarro, che già aveva fatto ampiamente la fortuna di “Erdentempel” (“Freiflug”, “Heavy Chill” per citarne un paio). Di fatto però, tolto il particolare ritornello con retrogusto andino, che poco ha di metal, molto ha di tamarro ed effettivamente sortisce un grande effetto, il singolo pare essere costruito su riff di una scontatezza assurda.
E questo è il discorso che vale per tutto l’album. Non che ci sia nulla di male, “Erdentempel” infatti, e si vedano gli esempi di cui prima, era stato strepitoso nel proporre riff triti e ritriti, aggiungendo però quel certo non so che, in modo tale da trasformarli in qualcosa di estremamente catchy ed irresistibile,
Questa formula permane in Armageddon, basti vedere “Erwachen”, “Zum Horizont” o “Eternal Destination”. Si tratta di pezzi comunque validi, eppure portatori di una sensazione strana. È un po’ come se gli Equilibrium avessero voluto prendere tutti i loro cliché vincenti e fonderli in un album sì piacevole e godibile, ma estremamente calcolato. Un po’ come se avessero voluto sbagliare.
E la sensazione è confermata nei momenti in cui ci troviamo innanzi a qualche vero pezzo bomba, su tutti “Heimat”, basata anch’essa su melodie già sentite, eppure efficacissima, uno di quei pezzi tipici dei teutonici, che ti fanno aprire il libretto con la sinistra per cantare il testo mentre con la destra levi alta la Gösser, rigorosamente in boccale. Al di là dei riff, anche la forma canzone viene mantenuta in modo estremamente aderente alla sua forma classica di strofa-climax-ritornello- strofa-climax-ritornello-break-ritornello. O giù di lì, e anche questo è un fenomeno che fa pensare, poiché i teutonici sono sempre inclini a variazioni sul tema.
La sensazione che corre lungo tutto il disco, dunque, è che gli Equilibrium, probabilmente sotto la regia della Nuclear Blast, abbiano voluto tentare un ulteriore salto di popolarità. Offrono un disco gradevole, che esponenzializza tutte le caratteristiche della band, eppure risulta imbrigliato, bloccato dalla necessità di essere facile, troppo facile, in modo di arrivare al massimo numero di persone possibili. A suo modo, ricorda (almeno a chi scrivere), “Century Child” dei Nightwish, album bloccato dalla necessità, da un lato, di appesantire il suono, e dall’altro, da quella di fornire melodie facili all’ascoltatore.
E di melodie facili qui ce ne sono, perché i tedeschi sono sempre stati maestri assoluti in questo campo. Vi sono anche melodie che funzionano, sicché Armageddon risulta un disco valido, in particolare per i neofiti (guarda caso). Tutti gli altri invece, pur godendosi lo spettacolo, non riusciranno a non pensare a quest’album con una punta di amaro.