Recensione: Artemisia
I Sun Caged nascono da lontano, e il percorso che li ha partoriti è di quelli tortuosi. Era il 1993 allorché il chitarrista olandese Marcel Coenen diede inizio al prog-act Aura, fautore di un demo-tape ormai introvabile ma soprattutto embrione dell’ottima quanto sottovalutata band dei Lemur Voice, in grado di pubblicare tra il 1996 e il 1999 due dischi di sofisticato progressive-metal, prima che le immancabili divergenze musicali (qui quasi prevedibili, data l’eterogeneità di influenze presenti nel combo) portassero, nell’estate del 2000, ad uno scongiurabile scioglimento. Ma il buon Coenen aveva forse fiutato lo split, e il progetto parallelo che teneva in piedi già da un anno (e in cui militava Rob Van der Loo, fratello del singer dei Lemur Voice) divenne ben presto una band vera e propria, giunta nel 2003, dopo due demo e vari cambi di line-up, alla pubblicazione dell’omonimo ed interessante debut: “Sun Caged”. La diaspora non era ancora finita, e ben presto Coenen si è ritrovato a dover rimpiazzare i 4/5 della band approdati ad altri lidi (tra cui il più noto quello degli Sphere of Souls): è in questo contesto che nasce dopo 4 anni “Artemisia”, come-back invocato dagli appassionati di settore e che, a fronte di una formazione rivoluzionata, non porta comunque a particolari sconvolgimenti nel sound.
Le sonorità si attestano dunque, di massima, su un classico prog-metal dalle tinte melodiche che strizza l’occhio al neo-prog e a band come Vanden Plas ed Enchant, mantenendo un sufficiente grado di personalità grazie al chitarrismo virtuoso di Coenen (in ogni caso mai debordante), a sprazzi fusion che ultimamente sembrano tornare in auge (si veda “A Fair Trade”, uno dei pezzi più riusciti, con un bel basso jazz e in cui il nuovo singer -sul quale torneremo fra poco- si esprime al meglio), e a cicliche accelerazioni ossessive debitrici in qualche modo dei Cynic (come nel caso della potente “Unborn”, che ricava spunti anche dai Symphony X più sferzanti, o dei richiami ai Meshuggah nel finale della strumentale “Engelbert the Inchworm”, condotta fin lì dai Rush e dagli Spock’s Beard più ironici), a cui va aggiunto un riferimento generale al rock progressivo degli anni’70 (particolarmente evidente nel prog-rock acustico di “Afraid to Fly”, brano che –anche nell’uso delle backing vocals- è accostabile ad alcune cose dei Kansas). Quanto al nuovo vocalist, Paul Adrian Villareal, va sottolineato che non si discosta troppo dal precedente (Andre Vuurboom), anche se risulta meno legato ai cliché del genere, riallacciandosi nei toni alti (prevalenti) più che altro ai colleghi dell’AOR, ed avendo un riferimento prog-metal in Ted Leonard (mentre nelle tonalità medio-basse mi ha ricordato il “vecchio” Greg Lake): il suo lavoro al microfono, tirando le somme, è di discreto livello e adeguato al sound proposto dai Sun Caged, pur non impressionando per espressività, varietà e tecnica, e apparendo a tratti in difficoltà nei cambi di tono (come nella lunga “Bloodlines” o nel prog-metal standard di “Painted eyes”) e delineandosi, al contrario, più efficace nei brani più smaccatamente melodici, come la citata “A Fair Trade”. Stesso positivo giudizio anche per l’interpretazione di “Lyre’s Harmony”, riuscitissima opener il cui attacco evocativo ci aveva già introdotto nell’immaginario regno di Artemide (Dea greca della caccia, alla quale venivano attribuiti decessi inspiegabili), qui reso metaforicamente come un mesto luogo -raffigurato in copertina e nei fiori gialli di Artemisia sparsi all’interno dell’elegante booklet- in cui vagare alla ricerca di persone o sogni perduti (in sostanza, le tematiche ricorrenti del disco). Fra i responsabili del sopra accennato tocco seventies va invece sicuramente annoverato il tastierista di René Kroon, il quale non disdegna l’uso di effetti hammond, che ritroviamo ad esempio -in parallelo a qualche incursione moog– nell’eccellente “Departing Words”, autentica marcia in più del disco che raggiunge il suo acme nell’eclettismo di una fase strumentale che vede gli incastri tipicamente prog-metal della sezione ritmica e i più classici intrecci chitarra-tastiera ad alternarsi con ritmi di samba, imprevedibili toni di xilofono, e le divagazioni mediorientali di un sitar, oltre ad un accattivante ritornello che funge da perfetta ciliegina sulla torta. Le tastiere, che si fanno invece quasi new-age all’inizio di “Doldrums” (poi arricchita da un pianoforte ipnotico, dal basso fretless del guest -ed ex Lemur Voice- Barend Tromp, e dall’ispiratissimo assolo conclusivo di Coenen), appaiono poi più futuristiche in “Dialogue”, che non a caso, all’interno di una struttura piuttosto articolata fra arpeggi e riffs taglienti, fa intravedere nel chorus gli Andromeda dei primi due dischi, mentre i suoni hammond ritornano nella parte solista di “Bloodlines”, che parte con un pianoforte alla Richard Clayderman e si sviluppa nei suoi 9 minuti fra bicorde e arpeggi ‘Rychiani (e dei Vanden Plas), anche se non decolla come dovrebbe in un refrain nel quale proprio il singer Villareal non pare abbastanza incisivo.
Riassumendo: il songwriting di Coenen e soci, pur non innalzandosi oltremodo per originalità, si mantiene su livelli più o meno buoni per tutta la durata del disco, e ciò è sufficiente per un giudizio globale sicuramente positivo. Il nome Sun Caged è quindi di quelli da segnare per l’immediato, e da tenere d’occhio in vista di un definitivo salto di qualità, sempre che (assieme ad una maggiore cura delle vocals…) si giunga finalmente anche all’agognata stabilità della line-up. Intanto, diamo pure il giusto incoraggiamento a questo passaggio del quasi quindicennale percorso musicale di Marcel Coenen…
Alessandro Marcellan – “poeta73”
Tracklist:
1 Lyre’s Harmony 7:22
2 A Fair Trade 6:26
3 Unborn 6:27
4 Bloodlines 9:30
5 Painted Eyes 4:26
6 Engelbert the Inchworm 4:36
7 Afraid to Fly 7:09
8 Dialogue 7:54
9 Departing Words 8:05
10 Doldrums 7:31