Recensione: Artificial Void
Un disco musicale può essere tante cose e rappresentare ancora di più. Possiamo tranquillamente sbilanciarci e sostenere che in effetti – trattandosi pur sempre di arte – può rappresentare una cosa differente per ciascun ascoltatore, un po’ come diceva il buon Pirandello nel suo “Uno, nessuno e centomila”. Se poi ci addentriamo nel genere progressive, è perché ci piace complicarci la vita. In quel calderone di note, composizioni fuori dalle righe (alle volte anche dal rigo), stacchi e una buona dose di elementi messi appositamente per spiazzare l’ascoltatore, ci si trova facilmente a necessitare di più ascolti al fine di comprendere realmente cosa si abbia di fronte. L’evoluzione del progressive rock, passando per il rock psichedelico, il prog metal e tutte le sue migliaia di declinazioni gode di vita propria, alle volte quasi soltanto interessato a placare la fame di suite da 25 minuti di un ristretto numero di estimatori elitari. Tra il farlo bene e il suonare autocelebrativi il limite è davvero minimo, soprattutto considerato che all’alba del 2019 si sia attinto da qualsiasi altro genere per il fine di contaminare il proprio sound e renderlo differente rispetto alla concorrenza. Il djent ha fatto una cosa simile, allargando l’ipotetico contenitore del death metal tecnico e mescolando con un po’ di progressive da una parte e un po’ di chitarre a sette e otto corde – meglio se accordate qualche tono più in basso. Il risultato ha sorprendentemente dato vita ad un nuovo sottogenere, il quale però per molti sta dimostrandosi un triangolo delle Bermuda, facendo arenare proprio coloro che sembravano in grado di trascinare un nuovo filone.
Gli Unprocessed sono sbucati fuori nel 2014 e con il precedente lavoro intitolato Covenant, hanno dimostrato come ci sia ancora modo di alzare la mano e attirare l’attenzione. Applausi a scena aperta per il giovanissimo quintetto tedesco che ha saputo confezionare un disco a dir poco strabiliante grazie alla perfetta convivenza di tre fattori imprescindibili nel momento in cui si ragiona in termini di capolavoro artistico e non di semplice prodotto. Ispirazione, composizione ed esecuzione. Gli Unprocessed, appena l’anno scorso, hanno messo a segno un centro pazzesco e pensare che ad appena un anno di distanza se ne escano con un altro full-lenght apre uno scenario che non conosce mezze misure: ulteriore consacrazione oppure il classico passo più lungo della gamba.
Avendo recensito Covenant e reputandola una delle migliori uscite del 2018, ho preso la cosa più seriamente rispetto al solito, non lesinando sul numero degli ascolti e analizzando nel profondo ogni singola canzone del nuovo Artificial Void, secondo disco prodotto per la Long Branch Records. I più curiosi potrebbero aver già sbirciato il giudizio finale in coda alla recensione, ma mai come in questo caso un semplice numero non è in grado di rendere giustizia a un contenitore artistico che sfiora i sessanta minuti di durata. Capita di pensare ai Pink Floyd e provate un po’ voi ad ascoltare Animals o Atom Heart Mother, mentre fate una qualsiasi cosa che non sia ascoltare con gli occhi chiusi ciò che vi sta entrando nei timpani. Non vi rimarrà praticamente nulla ed è questo il caso di Artificial Void, un disco sorprendentemente più maturo di quello registrato appena lo scorso anno, molto più ambizioso e ancora più in grado di farci traballare dalla sedia, alla costante ricerca di quelle ritmiche a dir poco contorte che non troverete su nessun altro disco in catalogo oggi.
Che agli Unprocessed non manchi l’ispirazione non è più un segreto, ma è il modo in cui riescono a fondere sonorità così differenti, a creare emozioni che si inseguono l’una con l’altra in un vortice di ritmiche che per la maggior parte dell’album si distaccano dal djent “più tradizionale” per evolvere continuamente in qualcosa di più emozionale, al punto di permettere a quel genio di Manuel Gardner Fernandes (chitarra e voce) di tessere suoni nuovi e di alternare la voce sporca con un maggiore utilizzo di voce pulita, davvero convincente soprattutto quando il mood si fa più riflessivo. Episodi come la opener Prototype e la stessa title-track dimostrano come ci sia la consapevolezza di essere i primi ad aver aperto una nuova porta nel mondo progressive. Fear connette le atmosfere di Ghilan (da Covenant) con quella che rappresenta la nuova pelle della band, fedele alla propria coscienza, ma concentrata su un prisma ritmico che appartiene all’identità della band. Un altro brano di spicco è Avatar, la quale entra di prepotenza grazie ad un basso distorto che accentua la cattiveria di un pezzo che sconfina quasi oltre il limite del deathcore. E poi? Poi si evolve ancora, muta, diventa djent e riesce a trascendere da ogni genere o forma, come quel vortice artificiale che è pronto a risucchiare l’ignaro figuro in copertina.
Potrei andare avanti per giorni, ricominciare da capo, aggiungere di qua, modificare di là e comunque non potrei umanamente trasmettervi la grandiosità del sound di questo disco, un manifesto sui generis che si regge sulle solide gambe del disco precedente, mutando come la pelle di un serpente, fortificandosi e allargando un orizzonte che appariva giù difficile da arricchire musicalmente. La sezione ritmica è impegnata continuamente e non cerca mai soluzioni scontate, abbracciando quella che è la più importante regola del progressive, ovvero cercare di suonare le note e partiture meno scontate, quelle che nessun altro avrebbe messo in quel preciso punto. La stessa dimostra essere l’arma vincente per originalità e per forgiare un sound che non troverete da nessun’altra parte. Fernandes è un genio e oltre avere una voce in grado di strappare urli violenti, si sente a suo agio nei tratti più riflessivi, sempre armeggiando ritmiche fuori dal comune – qualcuno ha detto Daniel Gildenlow? Artificial Void è un disco che sembra scritto da qualcuno abbastanza fortunato da aver viaggiato nel futuro e scoperto di cosa avevamo bisogno in questo momento per dare uno scossone a un panorama progressive, che quando non riesce ad attingere da sonorità degli anni d’oro (dai ’60 a fine ’70) stenta a decollare e spesso suona più scontato del tipico album power metal con draghi, spade e il cavaliere di turno. In tutto questo, gli Unprocessed non fanno pesare la perizia chirurgica celata dietro a ogni nota, ma permettono di apprezzare un’ora di musica realmente innovativa ed alla quale la nostra materia grigia non era più abituata. Le orecchie godono, il cervello ringrazia. Mastodontico!
Brani chiave: Prototype / Artificial Void / Fear / Avatar