Recensione: ArX AtLantis
Il primo aggettivo che nasce spontaneo per definire ArX AtLantis) è “commovente”. I cinquanta minuti racchiusi in questo album composto da cinque lunghi brani sono un tributo alla storia de Il Castello di Atlante (il titolo è la traduzione in latino del moniker) e al contempo segnano la volontà del combo italiano di continuare a proporre ottima musica, in parte “rinnovata”, in parte fedele al passato glorioso della band, che celebra un traguardo importante in carriera, come leggiamo nel booklet:
Questo album celebra il quarantesimo anniversario della nostra band.
Tutto nacque nel 1974 e, dopo 40 anni,
stiamo ancora suonando la nostra musica.
Se non fosse mai esistito Il castello di Atlante,
avremmo avuto una storia differente
e saremmo stati uomini diversi.
L’artwork è bellissimo, poesia pura, così i testi, dai temi fantastici ma anche storici (“Ghino e l’abata di Clignì“) ed epici (“Il tempo del grande onore“). Un tocco di classe, inoltre, la trovata di includere le traduzioni in inglese nel libretto, i nostri hanno buon seguito anche all’estero. L’intento di proporre un sound più diretto è subito chiaro nell’attacco dell’opener, “Non ho mai imparato”, con un drumwork energico, che ricorda da vicino le prodezze di un certo Mike Portnoy. Tutto funziona alla perfezione, base ritmica e strumenti solisti: ritroviamo l’accostamento violino-chitarra elettrica, marchio di fabbrica del Castello, con Andrea Bertino subentrato allo storico membro Massimo Di Lauro (qui ospite nella penultima canzone in scaletta). A metà brano l’atmosfera cambia, si passa a tempi dispari di matrice Yes. I testi sono il valore aggiunto (e possiamo goderceli in lingua originale): “Solo nella notte, con le tue parole in mente / Solo nella notte, sfiorando questi tasti / Non ho mai imparato a protegger il mio cuore”. La suite si chiude in modo circolare, l’unica cosa che non convince sono le voci, che puntano tutto sul pathos, trascurando il lato tecnico.
“Il vecchio giovane” è un brano che vede una presenza più pervasiva delle tastiere, una delizia sonora, ascoltare per credere: melodie e riff apparentemente scontati riescono a creare intrecci sonori raffinati e cangianti. L’inizio di “Ghino e l’abate di Clignì” può essere scambiato, niente meno, per l’avvio di un brano degli Haggard! In realtà si tratta di un’altra song progressive che traccia un ritratto sonoro del celebre brigante contemporaneo di Dante Alighieri. Nei minuti finali compare anche una compassata doppai cassa e come ospite di tutto riguardo figura Tony Pagliuca (Le Orme) alle tastiere. Si parla, invece, di cavalieri e di Galahad nella seguente “Il tempo del grande onore”, pezzo più Seventies e con un ritornello catchy (che ricorda vagamente gli Area).
La suite finale, “Il tesoro ritrovato” è la summa dell’inventiva messa in campo dal Castello. Regge il confronto con mostri sacri del prog. aurorale e contemporaneo (come Neal Morse e The Flower Kings), ma anche con band come IQ e Pendragon. Un capolavoro, un divertissement sonoro che ritempra l’anima dell’ascoltatore giudizioso.
ArX AtLantis è un album da gustare in tutti i suoi aspetti e gode di buona longevità. Il Castello di Atlante non ha perso la sua magia nell’irretire e svagare le menti dei fan; l’unico difetto resta la prova al microfono dei nostri, ma la cosa sembra calcolata, in nome di un’umana sprezzatura che rifugge la fredda perfezione. Curiosamente, infine, pare che le band che hanno l’articolo determinativo nel proprio moniker siano destinate a grandi cose, basti pensare a gruppi come: Il bacio della medusa, Il balletto di bronzo, Il cerchio d’oro, Il segno del comando, Il Tempio Delle Clessidre e Il trono dei ricordi. Un sincero grazie va a tutti quati musicisti di grande levatura, che hanno puntato sulla musica per dare senso alla vita.
Roberto Gelmi (sc. Rhadamanthys)