Recensione: As The Flame Withers
Presentiamoli. Yoth Iria sono un duo composto da due vecchi volponi della scena black ellenica, nonché ex Rotting Christ: George “The Magus” Zaharopoulos, alla voce, e Jim “mutilator” Patsouris. Dopo l’ottimo EP di debutto dello scorso anno, Under His Sway, gli ellenici si presentano alla prova del nove con questo debut album, dalle grandi aspettative.
Partiamo analizzando la copertina, che nel metal spesso è un ottimo indizio su cosa ci si possa aspettare: il loro “Eddie”, o meglio, la loro mascotte, è una sorta di demone con imperiose e regali ali da angelo che giganteggiano sullo sfondo, vestito come un Dio egizio, che impugna un bastone che ricorda quello dell’Ofiuco mentre una croce, rigorosamente capovolta, spicca sul petto al centro dell’artwork – posizione non del tutto casuale considerate le tematiche trattate. Questi elementi, sono il tratto caratterizzante del satanismo romantico degli Yoth Iria, che coniuga elementi tipici del black metal ad altri di matrice egizia ed ellenica: la base culturale su cui poggia la loro opera è piuttosto eterogenea ed influenza, in questo senso, anche la loro musica, con una varietà di suoni a volte forse eccessiva, che porta l’ascoltatore fuori dal sentiero tracciato. Sia chiaro, questi ragazzi sanno fare davvero buona musica perché, già ascoltando The Great Hunter che apre l’album, si capisce che abbiamo a che fare con grandi musicisti, abilissimi nel proporre un suono pulito, con chitarre heavy, che sfiora l’anima del progressive. Lo sfiora, appunto. Perché l’impressione, nei continui cambi di tempo, è di avere a che fare cono un lavoro che poteva essere ottimo ma non lo è stato per la paura di osare: le armoniche sono impeccabili, e la batteria è, oseremmo dire, chirurgica nel suo essere perfettamente calibrata. Tuttavia, quando tutto sembra per esplodere, improvvisamente rallenta: sebbene caratterizzate da ritmi blandi, Hermetic Code e The Mantis sono ottimi brani, ma i momenti più alti gli Yoth Iria li raggiungono quando accelerano: indubbiamente il brano migliore è proprio Red Crown Turns Black, caratterizzato da una coinvolgente base ritmica ed un riff semplice ma efficace.
Ci sono però anche parecchi lati positivi. Sicuramente si tratta di un disco compatto, granitico, e coerente dal principio fino alla fine e se si riesce a stabilire un feeling, sicuramente, risulterà gradevole e scorrevole nell’ascolto. E poi ci sono le inequivocabili abilità tecniche dei musicisti: una perfetta e chiara esecuzione delle armonie ed una batteria chirurgica, il cantato è ottimo, e raggiunge il suo apice nell’interpretazione di Hermetic Code, dove The Magus sembra un tetro Hypnos.
Volendo riassumere questo album con una metafora calcistica: cosa ne sarebbe stato del goal di Maradona in Argentina – Inghilterra del 1986 se, dopo quella meravigliosa serpentina, fosse inciampato nel pallone o fosse intervenuto un difensore? Un brillante gesto tecnico, ma un ricordo sbiadito. Abbiamo a che fare con musicisti di pregevole fattura, aspettiamo presto una loro risposta, magari un po’ più coraggiosa e forte.