Recensione: Ascending
Band: The Hate Colony
Etichetta:
Genere:
Metalcore
Anno:
2017
Nazione:
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75
I The Hate Colony vengono dalla Norvegia, e sono qualificati come band di melodic metalcore. A parte i dati geografici, il resto è tutto da verificare poiché il genere che meglio si adatta a loro è, forse, il deathcore, in una forma sì melodica ma non troppo.
“The Hate Colony” è il loro terzo lavoro, prodotto piuttosto desueto se si pensa che giunge da una Nazione che in campo *-core non è all’avanguardia così come, per esempio, la Gran Bretagna. Tuttavia, i The Hate Colony si presentano come formazioni dai notevoli contenuti tecnico/artistico.
Dal punto di vista tecnico nulla da eccepire: Lord Mordor e i suoi compagni sciorinano metalcore ai massimi livelli internazionali. La perfezione dell’esecuzione è alla pari di gente come Carnifex, The Black Dhalia Murder, Withechapel et similia. Nulla da eccepire, insomma, sulla preparazione tecnica di ciascun elemento della formazione di Trondheim. Va da sé che ne beneficia il sound, a sua volta perfetto in tutte le sue componenti.
Le chitarre di T-Bag Joe e Big Truck alzano abnormi muraglioni di suono, dalle dimensioni massicce, sui quali disegnano gli elementi melodici più su richiamati. Gli stop’n’go, invero non numerosi, spaccano in due la schiena esprimendo potenze elevatissime (‘Empire Rises’). Merito, anche della sezione ritmica a cura di Sars The Virus, basso, ed El Nigardo, batteria; quest’ultimo particolarmente efficace in occasioni di blast-beats violentissimi (‘Undertaker’, ‘Self-inflicted’). Adeguate le linee vocali di Mordor, acide come devono esserlo le harsh vocals, con alcuni sconfinamenti nel growling.
Le dodici song del platter obbediscono con facilità e naturalezza ai dettami imposti dai Nostri, forse non originalissimi, ma fermi nella loro riproposizione di schemi ormai assodati. A dire il vero quando si bada a centrare le coordinate stilistiche di un determinato genere si può ottenere un risultato eccellete in termini di coerenza e maturità ma anche un certo deficit di personalità. Che è quello che accade in “The Hate Colony”. Occorre tuttavia rilevare che la bravura del quintetto scandinavo è talmente elevata che il piacere di ascoltare un sound senza macchia è innegabile.
A proposito di canzoni, i The Hate Colony tendono a privilegiare l’aggressività se non, addirittura, la brutalità (‘Egocentric’). A dispetto di soluzioni armoniche compiacenti l’udito, come il trittico iniziale ‘Ghost of Damnation’, ‘Ashes’ e ‘Storyteller’. Anch’essi sono pezzi veementi, potenti, robusti, estremi ma contenenti indicazioni melodiche che, quasi, si possono accumunare a quelle dell’industrial metal.
Menzione a parte per lo stupendo intermezzo centrale, “Intermezzo”, appunto, che mostra inequivocabilmente una grande capacità di armonizzazione, dai toni tristi e melanconici, indicante la circostanza che, se utilizzata con maggior continuità, renderebbe i The Hate Colony sicuramente più completi ma anche più accattivanti, nel senso buono del termine.
La prova complessiva è buona. Manca qualcosa. Paradossalmente, un po’ di melodia in più.
Daniele “dani66” D’Adamo