Recensione: Ascension Of Kings
Nel dicembre del 2014, la band Britannica progressive rock capitanata dalla consanguigna triade Walker e dallo storico tastierista dei Ten, Terrence-Birch, rilascia il proprio secondo LP in studio. Andiamo dunque a vedere cosa ci riserva, a distanza di 3 anni dal debut album, questa nuova fatica del quintetto di Blackpool.
Un vento minaccioso fischia l’intro della prima song, “Fourth Kingdom”. Il sound della band sembrerebbe risultare subito chiaro fin dalla prima battuta. Chitarre, tastiere e, conseguentemente, anche il mood generale suscitato, ricalcano fedelmente tutti i cliché e i crismi di quel rock/glam tanto in voga nei lontani anni ’80, tanto semplice quanto fresco e frizzante, almeno all’ora. La voce di “Spud” Taylor, invece, evidenzia una timbrica contrastante con quelle che solitamente si usa accostare a questo tipo di sonorità, abbastanza statica e quasi cupa. Il tema della canzone è orecchiabile anche se non brilla per originalità o innovazione.
Dopo questo primo ascolto, sembra chiara l’intenzione dei fratelli Walker & Co. di farci fare un ipotetico viaggio temporale, catapultandoci improvvisamente a metà anni ’80, quando i capelli vaporosi e cotonati, i jeans chiari e attillati, i chiodi e le ingombranti Reebok bianche dettavano l’ultimo grido della moda popolare, un po’ come se questi ultimi 30 anni non si fossero mai aggiunti ai libri di storia. Incuriositi, andiamo a scoprire se questa sensazione di déja-vu è stata solo un miraggio o se continuerà ad accompagnarci per tutta la durata dell’album.
La strumentale “Return Of The King” continua a presentare la tipica tastiera in stile Europe ma sembra strizzare un po’ più l’occhio alla modernità grazie a una chitarra più tagliente e a un drumming, quindi a una tempistica, leggermente più complessa. Ciò che lascia perplessi è la brevissima durata del pezzo: nonostante paia incanalarsi immediatamente su binari che solitamente richiedono uno sviluppo concettuale più dilatato, proprio quando sembra che stia per finire l’interessante intro di una potenziale riuscita “suite”, finisce in realtà l’intero brano.
Un po’ straniti ci caliamo nell’ascolto della seguente “Strange Dreams”. Riff e tappeto sonoro in linea col precedente, anche se la minore invadenza melodica delle keyboards di Birch lascia trasparire un nonsoché di rusheggiante, il che non è mai un male. Ritroviamo dove avevamo lasciato anche la voce di “Spud”, il quale esce dalla sua zona di comfort soltanto sul finale con un acuto non veramente degno di nota, seguito da un improvviso cambio di tempo e da un segmento strumentale in cui Craig Walker riesce a fuoriuscire dalla pasta sonora (ora molto più tastieristcamente influenzata) con interessanti controtempi.
Il secondo pezzo strumentale, “Overture (Clanann Part One)” prende forma da una base molto ariosa e atmosferica escogitata da Birch per dare un po’ di teatralità a questa quarta traccia. La batteria si inserisce dopo qualche battuta limitandosi a supportare e accompagnare quello che si rivelerà molto presto quasi uno spartiacque tra due canzoni, più che un vero e proprio lavoro con un’identità a sé stante. Troppo poco per destare reale interesse.
“Realm With A Soul (Clanann Part Two)”, si muove sulla falsa riga della precedente ma riesce paradossalmente a dire meno di essa. Nemmeno la presenza di una linea vocale pacata e quasi onirica riesce a risollevare le sorti di questa composizione.
“Seventh Rider (Clanann Part Three)” vede una nuova uscita di scena di “Spud” e lascia questa volta il ruolo di trascinatore alla sei corde di Martin Walker il quale la trasforma quasi in un pezzo solistico, senza troppe pretese né guizzi degni di nota. Inoltre, la volontà della band di dare vita a una suite unica divisa in tre movimenti risulta evidente più dalla scelta dei titoli delle ultime tre tracce analizzate che da un effettivo train d’union stilistico che dovrebbe collegare i vari brani tra loro.
“Weight Of The World” è l’immancabile ballad. Intro di pianoforte, arpeggio di chitarra e un drumming di buona dinamicità fanno scorrere liscio il pezzo, mentre la linea vocale fa il suo compitino senza apportare quel valore aggiunto che farebbe di una canzone normale un brano memorabile. A sopperire a questa mancanza ci prova Martin Walker con due assoli di chitarra, uno acustico e uno elettrico, molto melodici e ben strutturati, seppur sempre un poco anonimi. Il risultato non cambia comunque.
Arriviamo così all’ultima incisione del disco, sulla quale riponiamo, un po’ utopisticamente, tutte le residue speranze di trovare qualcosa di veramente incisivo. “Vision” sembra partire col piede giusto, un tiro più deciso e ritmi più coinvolgenti danno finalmente un po’ di brio. Le tastiere continuano ostinate a riproporre lo stesso antico suono ma stavolta sembrano più coordinate e complementari con le chitarre, le quali a loro volta sfoggiano un riff di purpleiana memoria. Un suono decisamente più heavy dei precedenti e alcuni sapienti cambi di tempo, conferiscono la giusta incalzante atmosfera. Il playing di Craig alle pelli, pur non rappresentando nulla di nuovo in ambito batteristico, contribuisce ancora una volta a dare verve e pienezza al tutto. Col passare dei minuti, la song assume in maniera esemplare tutte le caratteristiche strutturali di una vera suite, il che giustifica anche la sua maggior durata complessiva (anche se leggermente esagerata da un paio di sezioni solistiche troppo dilatate). I soli di chitarra rimangono sempre in un indefinito limbo, così come la linea vocale. Un buon lavoro anche se troppo tardivo.
Concludendo, possiamo dire che questo secondo studio album del quintetto inglese non rimarrà nella storia come una delle pietre miliari del genere, per usare un eufemismo. Tuttavia, non tutto è da buttare: a parte certe scelte stilistiche discutibili e una latente carenza di originalità, si è messa in mostra una certa attitudine a creare atmosfere e strutture compositive interessanti, lontanamente degne di alcuni dei classici mostri sacri di questo stile musicale. Una dovuta menzione va al buon Craig Walker, forse l’unico a meritare un voto alto per quanto dimostrato dietro le pelli e spesso il solo a “tenere in piedi la baracca”, come si suol dire.