Recensione: Aspera Hiems Symfonia
A.D. 1987. Tre ragazzi di Oslo vogliono il death metal nel proprio futuro. Sotto il monicker di Mortem, Marius Vold, Steinar Sverd Johnsen e Jan Axel van Blomberg, poi celebre col nome di Hellhammer, incidono un demo e un EP, entrambi intitolati Slow Death. Ma rapida è la morte che attende la neonata band, e ben altro il destino riservato ai suoi attori…
A.D. 1990. Tre ragazzi di Oslo cambiano idea. Dalle ceneri dei Mortem rinasce una creatura devota alla fiamma nera del nord: il suo nome è Arcturus. Un anno di tempo è quanto basta a immortalare nei soli dieci minuti di fredda tenebra dell’EP My Angel quella che a molti già suona come una nuova, esplicita dichiarazione d’intenti. Ma tra le note di ghiaccio pulsa in silenzio un cuore gonfio di insana follia, un cuore che porterà la band scandinava a esplorare lande mai solcate prime da orma umana. Saranno necessari due ulteriori anni perché questo primordiale, oscuro vagito si tramuti in verbo articolato e dissacrante.
E’ il 1993: il neonato astro di Arcturus è già in procinto di completare la sua prima, imprevedibile, evoluzione: Constallation.
A.D. 1995. Dei tre ragazzi di Oslo, uno, Marius Vold, ha abbandonato i compagni; ma nuove forze sono pronte a sostenere la causa del duo superstite. A offrirle saranno tre lupi che hanno già affondato i propri artigli nella storia: ghermita dalla tenebra affilata e sontuosa di Bergtatt, stordita dall’antica tradizione in Kveldssanger e, nel 1996, nuovamente sconvolta da quel lancinante manifesto di selvaggia passione che i posteri ricorderanno col nome di Nattens Madrigal. Tra questi, compare il nome di uno dei personaggi più menefreghisti, imperscrutabili e stravaganti che il mondo della musica abbia mai conosciuto, quel giovane Kristoffer Rygg che tanto si divertirà a giocare con aspettative ed emozioni dei fan dietro i nomi di Garm e Trickster G.. Sua la voce di oscuro cantore che condurrà lo sparuto ascoltatore tra gli sterminati campi del nord, spazzati da neve ardente e fiamme glaciali, lungo un’opera determinata a ignorare la propria natura di debutto per auto-proclamarsi ferreo anello di collegamento tra una passato conservatore e un futuro da pionieri.
Prima e unica prova targata Arcturus accostabile agli stilemi del black metal, Aspera Hyems Symfonia racchiude all’interno del suo guscio di ghiaccio nero un’anima bruciante, inquieta, indomabile, sovrannaturale. Un’anima che si dopo poco più di un anno si reincarnerà nuovamente generando stordimento e confusione, mentre il mondo incredulo tenterà invano di trovare un verbo degno di definire quell’indescrivibile mostro musicale chiamato La Masquerade Infernale, capace nel 1997 di rompere schemi creduti infrangibili, di varcare confini ritenuti impenetrabili e di offrire ai propri ospiti una pietanza di carne divina che alcun mortale aveva mai osato preparare prima.
Non a tal punto sconvolgente, ma già insolito e a suo modo unico, il debut del 1995 parte dagli stilemi classici del black per approdare a rive nuove e inesplorate.
Violenza ritmica e ruvidità sonora sono i tratti tradizionali recuperati fin dalla folgorante partenza di To Thou Who Dwellest In The Night, mentre le grida malefiche di Garm riecheggiano in una valle di maestose tastiere. E se è vero che la sinfonia aveva già fatto il suo ingresso sul suolo del metal più estremo grazie alle intelligenze di Emperor e Dimmu Borgir, pochi avrebbero osato dilungarsi nello stacco strumental-acustico che tra cori e atmosfere solenni interrompe spavaldo la furia delle pelli, prima che un assolo breve, sporco e scabro spalanchi i cancelli di un epilogo grave e marziale.
Tra vocalizzi puliti e screaming agghiaccianti, ecco Garm introdurre le melodie sepolcrali di Wintry Grey. Il signore delle tempeste Sverd richiama e disperde con pochi tocchi stormi di nubi tonanti, Hellhammer massacra senza pietà la doppia cassa, mentre le pelli sono martellate di colpi lenti ma micidiali. I rombi dei tuoni si allontanano per lasciar spazio alle massicce sinfonie vichinghe di Whence & Whither Goest the Wind, sferzate da un’inquietante litania capovolta che farà divertire i fanatici del subliminale. E’ il preludio alla progenie infernale di Constellation; e nonostante lo spacco temporale che lo separa dal nuovo, il vecchio materiale si incastrerà con scorrevole naturalezza, quasi a ricomporre un mosaico già pensato sin dall’origine nella sua interezza.
Si (ri)inizia con l’ipnotico terrore di Raudt og Svart, nato nell’ossessione, cresciuto nella follia e morto nella disperazione. Riff di diabolica sagacia paiono già allestire il venturo teatro di abissale schizofrenia, sfidandosi in una spiazzante progressione avvolta da un’aura imponente, minacciosa, straordinariamente evocativa. Le parole sberciate dalla lingua serpentina di Garm sono ora la minaccia di un crudele messo infernale, ora il coro solenne d’un tristo poeta, ora la depravata farneticazione d’un demente allucinato. Ne nasce una gemma di tetra bellezza, un inno maligno e caliginoso, un ponte di ossa e carni che sovrasta gli inferi per condurre a nuovi mondi avvolti da nebbie impenetrabili.
Ed è solo l’inizio. Decadente e spettrale, ecco affacciarsi The Bodkin & the Quietus (… To reach the Stars). Basta un attimo alla mente per perdersi in un firmamento silenzioso, magnifico e atterrente nella sua sconfinata immensità. Una visione straniante, sublime, che non dà neppure il tempo di riprendersi: imbottite le vostre pellicce, poiché già stanno soffiando i venti sinfonici di Du Nordavind. Strepiti e sussurri crepuscolari corrono attraverso le nebbie di una landa ritmica desolata, irregolare, crudelmente squarciata da una glaciale fenditura pianistica.
Ritorno al presente. La drammaticità intensa e disperante di Fall of Man si accumula poco a poco abbarbicandosi a un medesimo, ossessivo giro di note, in una danza vorticosa, progressiva, sofferta, quasi rassegnata. Poi, finalmente, l’inquietudine a lungo accumulata trova pace sublimandosi in cori gravi e possenti, mentre un manto di tastiere, come morbida neve, si distende ad atrofizzare i sensi spossati. Infine, la danza si abbassa di un tono, e un assolo liberatorio mette il sigillo su un turbine di passione che sembra non volersi più spegnere.
Ma l’estremo sigillo sarà posto dall’ultima eredità di Constellation. Naar Kulda tar (Frostnettenes Prolog) procede imperiosa con passo cadenzato e implacabile, non restio a improvvise accelerazioni, e mentre gli ultimi secondi sgocciolano via uno a uno, venti gelidi e sinistri penetrano mordaci le ossa abbandonando tra i ghiacci notturni un ascoltatore agonizzante, estasiato, incredulo.
Frutto di una gestazione lunga anni, Aspera Hiems Symfonia è la prima forma assunta da quella riottosa entità metamorfica chiamata Arcturus, astro di prima grandezza nel firmamento del settentrione, capace con la propria luce di illuminare la via delle nasciture avanguardie scandinave. Si è qui al cospetto di una solenne e inviolabile promessa, mantenuta con la rivoluzione epocale immortalata nell’orgoglioso manifesto La Masquerade Infernale e rinnovata con l’imprevisto e imprevedibile The Sham Mirrors. Otto anni erano passati dal primo incontro di menti destinate a tracciare sentieri che presto altri pionieri e innovatori decideranno di intraprendere: si penetravano allora le radici della terra per gettare le fondamenta di un nuovo, maestoso castello di musica e passione.
Tracklist:
1. To Thou Who Dwellest in the Night (6:46)
2. Wintry Grey (4:34)
3. Whence & Whither Goest the Wind (5:15)
4. Raudt og Svart (5:49)
5. The Bodkin & the Quietus (… To Reach the Stars) (4:36)
6. Du Nordavind (4:00)
7. Fall of Man (6:06)
8. Naar Kulda tar (Frostnettenes Prolog) (4:21)
Arcturus: la leggenda
Arcturus è il nome latino della stella Arturo, l’astro più luminoso nella costellazione di Boote. L’etimologia del nome Boote pare derivare dal greco “*boutes”, corrispondente all’italiano “bovaro”, “pastore”. La costellazione del Boote è prossima a quella del Grande Carro, e da questo punto di vista rappresenta il mandriano che trascina i buoi legati all’aratro. Secondo i romani, infatti, le sette stelle del Gran Carro rappresentavano sette bovi, “septem triones”, da cui appunto il termine “settentrione”.
Il nome “Arctouros” risulta invece composto dai termini greci “arktos”, orso, “ouros”, guardiano. Il suo significato è dunque quello di “guardiano dell’orso”, ovvero, per antonomasia, “guardiano dell’Orsa Maggiore”, termine con cui i greci identificavano il nord.
In greco antico “Arktouros” indica anche il tempo del sorgere eliaco di Arturo, collocabile attorno alla metà di settembre. Giova osservare a questo proposito che l’ultimo album degli Arcturus, Sideshow Symphonies, è uscito il 16 di settembre 2005, cioè proprio a metà del mese. C’è da pensare che la scelta non sia del tutto casuale.
La costellazione si identifica con il mito di Arcàs, o Arcade, nato da Zeus e Callisto, figlia di Licaone, re di Arcadia.
La leggenda ha inizio, narra Eratostene, nel tristo giorno in cui il tracotante Licaone, convinto di poter trarre in inganno persino gli dei, decise di invitare Zeus alla propria mensa, sfidandolo a riconoscere quale pietanza gli fosse servita. Per confondere il palato del nume, Licaone fece uccidere con l’aiuto dei figli il proprio nipote Arcàs, e lo servì in pasto al divino ospite. Ma Zeus non fu ingannato, e con sgomento e orrore riconobbe le carni di Arcàs, suo figlio. In preda a furia incontrollabile, il signore degli dei uccise i figli di Licaone e trasformò il sovrano stesso in un lupo selvatico. Ricompose poi il corpo di Arcàs e, riportatolo in vita, lo affidò alle cure della pleiade Maia.
E’ qui che la storia di Arcàs si congiunge a quella dell’Orsa Maggiore: ma prima di poter proseguire sarà necessario un breve salto a ritroso nel tempo. Abbandoniamo dunque Eratostene e affidiamoci al racconto di Ovidio, che ci descriverà il primo incontro tra Zeus e Callisto.
Un giorno, riferisce il poeta, il focoso padre degli dei, attraversando una foresta, giunse nei pressi di una fonte. Lì, tra le fronde degli alberi, immersa nelle acque limpide scorse una creatura di inaudita bellezza: si trattava di Callisto, vergine al seguito di Artemide nonché compagna prediletta della dea della caccia. Al nume bastò uno sguardo: quella fanciulla doveva essere sua. Egli assunse dunque le sembianze della stessa Artemide e le si avvicinò senza destare sospetto alcuno. Lentamente, con naturalezza, la cinse tra le proprie braccia, e quando finalmente rivelò la propria identità per Callisto era ormai troppo tardi: a nulla valse la strenua resistenza della giovane, e il dio ebbe tutto il tempo di soddisfare la propria lussuria. Deflorata e disonorata, la ragazza fuggì in lacrime: non sapeva che le sue sventure erano appena iniziate. Per timore di essere allontanata dal seguito di Artemide, infatti, tenne nascosta la violenza subita. Ma ciò non fece altro che accrescere le ire della dea, quando non fu più possibile celare il ventre gonfio di vita. Artemide, infuriata, non volle sentire ragioni e, scoperta la gravidanza, cacciò l’impura tra grida e percosse.
Ma neppure allora la povera Callisto, sedotta e ripudiata, ebbe pace. Infatti, quando il figlioletto Arcas venne alla luce, anche Era, consorte di Zeus, vide la prova tradimento del marito. Allora, folle di gelosia, decise di vendicarsi sulla derelitta amante. Le si scagliò contro, la percosse, la gettò a terra e la maledisse. Fu in quell’istante che l’aspetto di Callisto iniziò a mutare: la sua pelle liscia e chiara si ricoprì di peli irsuti e ispidi, mentre le unghie le si allungavano e indurivano tramutandosi in affilati artigli e i denti bianchi si affilavano in foggia di terribili zanne. Quando la maledizione fu compiuta, la fanciulla si era tramutata in un’orsa.
Passarono quindici anni. Un giorno l’orsa Callisto, vagabondando per un bosco, si imbatté in un giovane cacciatore. Il suo istinto materno lo riconobbe al primo sguardo: si trattava proprio del figlio, Arcàs. Col cuore rotto da un’emozione lacerante, l’orsa non poté trattenere un grido sofferto, misto di gioia e dolore: un grido che alle orecchie dell’ignaro ragazzo risuonò come uno spaventoso ruggito. Il giovane e valoroso cacciatore imbracciò allora la lancia, avanzando intrepido verso la fiera, e certamente ne avrebbe trapassato le carni se Zeus, mosso da compassione, non fosse intervenuto. Sceso come un fulmine dall’Olimpo fermò la lancia di Arcàs proprio un attimo prima che questa trapassasse il cuore dell’inerme bestia, svelandone la vera identità. Madre e figlio erano ora ricongiunti, e Zeus decise di concedere loro l’immortalità. Fu così che i due vennero tramutati in astri brillanti ed eterni: essi sono oggi conosciuti come la costellazione dell’Orsa Maggiore e il suo eterno guardiano, Arcturus.