Recensione: Assault Attack
Terzo giro e terza rivoluzione. Così si potrebbe introdurre “Assault Attack”, terzo lavoro solista del leggendario Michael Schenker. Perché rivoluzione? Ve lo spiego subito. In preda a una vena compositiva folle Michael era riuscito, nel biennio 1980/81, a produrre due dischi piuttosto differenti fra di loro, l’omonimo esordio e “MSG”. Se il primo faceva della pazzia la sua arma fondamentale, il secondo era più inquadrato e sicuramente più moderno. Tutto ciò era stato reso possibile anche dai numerosi cambi di line-up, artisti anche di un certo peso specifico approdati alla corte del geniale chitarrista. Ora vi chiederete : “perché scrivi questo”. Beh lo scrivo perché qui si ha praticamente la stessa cosa. “Assault Attack”, ha una storia piuttosto perigliosa, che si intreccia fra un alternarsi di musicisti notevole. Su tutti spicca un nome importante : Gary Bardens. Il cantante infatti era stato l’unico elemento fisso e fidato di Michael, amato dal pubblico, discreto esecutore e ottimo complemento al biondo axeman in sede compositiva. Eppure il licenziamento arriva puntale e spietato (l’ennesimo gesto folle di Michael?, contestato in questo caso da molti aficionados), a favore per un brevissimo periodo di Robin McAuley, a sua volta scartato (per ora, viste le future evoluzioni) per l’ex Rainbow Graham Bonnet (Gary si “consolerà” per poco, nel 1982, alla corte di Gary Moore, che poi lo lascerà a piedi pure lui). Come potete ben intuire non se ne va solo Bardens. Rimane infatti solo il bassista Cris Glen, mentre cambiano aria Paul Raymond (che si dedicherà al suo side-project Ruffians, verrà sostituito da Tommy Eyre in sede di registrazione e da Andy Nye in tournee) e Cozy Powell (rimpiazzato da Ted McKenna). Se poi ci aggiungiamo una chiamata “maligna” di Ozzy, a metà delle registrazioni dell’album, per offrire a Schenker Jr. il posto di chitarrista lasciato orfano da Randy Rhoads (genio per genio….), come pensate che possa essere uscito il disco? Beh, ve lo dico io: benissimo, non facilissimo da assimilare (specie da chi è amante dei primi due), ma benissimo. Assault infatti è a mio avviso una prosecuzione del discorso MSG, con però diverse aggiunte. Sono presenti i tocchi di follia del primo disco, un sapientissimo uso delle melodie, tanta pulizia e smussi (forse troppa, è probabilmente questo che mi porta a preferire “Michael Schenker Group” ai lavori successivi del chitarrista tedesco) e una potenza sonora a mio avviso maggiore che in passato (buono il lavoro del produttore Martin Birch). I nuovi riescono a dare un eccellente contributo dal punto di vista compositivo, specie Bonnet, che si dimostra tanto un bel “sostituto” di Gary da questo punto di vista quanto diverso è nel cantato, sì meno tagliente (ma non troppo) ma più impostato e decisamente più ampio. Non si pensi però che Graham (anche lui durerà poco, vedrete in future recensioni) non sappia modificare questo status quando serve, basta sentire l’opener, che altro non è che la titletrack, per capire come girano le cose. Dopo un intro maestosa si viene subito colti da un riff (ve ne saranno montagne in questo disco) semplice quanto micidiale ed ispirato, che trasporta letteralmente l’ascoltatore. Come detto prima il frontman riesce ad alterare bene la sua voce, rendendola parecchio “sgarbata” ma pungente allo stesso tempo, per poi ritrovare se stesso nel buon ritornello (ottime le tastiere sullo sfondo). Bello anche l’attimo centrale, un assolo delicato e di classe quanto inquietante. Uno solo il compito della monolitica “Rock you to the Ground”, quello descritto dal titolo, asfaltare chi ascolta. Mid tempo quasi fastidioso per quanto costante, il pezzo culmina in un pressante e semplice slogan (accompagnato dalla elettrica) : “Run you to the ground”. Molto valido il lavoro di Glen dietro il basso, capace di dare tono, così come valido è il fiorire della canzone nel refrain, grazie al sapiente uso delle keyboards per ampliare il tutto. Nulla da dire sull’assolo, una classe e una melodia magistrali (contrappasso pieno rispetto alle strofe), che chiudono la song dopo 2 minuti e mezzo in incedere (sui quasi 6 totali). A mio avviso un po’ sotto al grande duo iniziale il secondo duo di componimenti, pur ottimi, formato da “Dancer” e “Samurai”. La prima traccia è scritta bene (buone le liriche), scorre veloce nonostante i quasi 5 minuti, è interpretata alla grande e fa della spensieratezza il suo pezzo forte, l’ideale per un sano break, manca però a mio avviso della compattezza necessaria a reggere il confronto con le prime due “monstre” (anche se l’assolo è di quelli giusti, eccome). Simile il discorso per “Samurai”, ottima, che riesce anche musicalmente a descrivere quello che vuole, con giusto pathos, ma che probabilmente avrebbe dovuto essere più breve (reputo che alla lunga la song stanchi). Sono godibilissime le strofe, un po’ meno il ritornello, che avrei personalmente fatto meno ridondante e più trionfale. Poco male comunque, fossero tutte brutte così le song… Ecco a proposito di brutto : dimenticate questo termine per “Desert Song”, traccia a dir poco magistrale, uno dei picchi, senza ombra di dubbio, dell’intera carriera solista del tedesco. Dopo un attacco che crea molta attesa si viene presi da un riff semplice ma non per questo meno geniale e infuocato (come nell’opener), infuocato come un deserto. Belle tastiere, che creano molta atmosfera, splendida fusione strumentale, uno stile molto orientaleggiante, questi gli ingredienti principali della componimento, che personalmente reputo senza punti deboli e che (anche se non c’entra nulla con le liriche) mi fa immaginare un tramonto ammirato da una duna di sabbia. Sopravanzato anche questo muro andiamo oltre, per troviamo la rocciosa compattezza di “Broken Promises”, mid tempo che fa del riff (ancora!) la sua arma vincente, ma non troppo. Infatti, personalmente, non sono amante di questa pezzo, che skippo abbastanza spesso, e che reputo uno dei più deboli del lotto (in questo caso la sua durata è un’aggravante). Non so perché, ma proprio non mi attira il suo complesso, un po’ freddo. Certo ci sono anche cose buone, vedi assolo centrale (ancora!!!), ma tant’è. Opposto il discorso per “Searching for a Reason”, brano corto (nemmeno quattro minuti, pochissimo rispetto alla media-album), ma godibilissimo. La ritmica è molto vivace, una vera ventata d’aria fresca che ringiovanisce l’album, mentre la melodia di 6 corde che si sente negli attacchi è forse la mia preferita in assoluto sul platter, trascinante a dir poco (la Flying V qui vola per davvero). Sono passati quasi quaranta minuti, quando ci viene proposta “Ulcer”, closer strumentale che è un vero e proprio attacco di follia, e mostra tutto il lato più pirotecnico, sfacciato e volendo pure ruffiano di una band che qui butta in gioco una incredibile pioggia di talento e tecnica, da stropicciarsi le orecchie. Forse non c’era modo più imprevisto di chiudere un album ottimo, che ho clamorosamente rivalutato col tempo e con gli ascolti (curiosità mia, secondo me il disco, a differenza di altri, rende molto di più nello stereo che se ascoltato in cuffia), e che rappresenta un altro grande prodotto (non il mio preferito, ma per mere questioni affettive) del (sempre secondo me) secondo più grande chitarrista della storia Hard Rock (nonché mio secondo preferito).
Riccardo “Abbadon” Mezzera
Tracklist :
1) Assault Attack
2) Rock you to the Ground
3) Dancer
4) Samurai
5) Desert Song
6) Broken Promises
7) Searching for a Reason
8) Ulcer