Recensione: Asylum
Eddie che si traveste da giullare sull’ultima scia di un Carnevale passato da poco? No! Il terrificante personaggio ritratto sulla copertina di ‘Asylum’, nuovo Full-Length degli statunitensi Atrophy, è sempre la loro mascotte, il pazzo buffone che su ‘Socialized Hate’, loro primo album del 1988, giocava con gli arsenali nucleari di Russia ed America e la cui evoluzione lo ha portato ad assomigliare molto alla creatura uscita dalla matita di Derek Riggs per accompagnare gli Iron Maiden nella loro lunga storia e diventare uno dei maggiori simboli dell’Heavy Metal.
La storia degli Atrophy è un classico: appartenenti alla seconda ondata Thrash, dopo due album si sono sciolti, per poi ritornare nel 2015 e scindersi in due distinte band nel 2020: da una parte Tim Kelly ha formato gli Scars of Atrophy (con all’attivo l’EP ‘Nations Divide’ del 2022), dall’altra Brian Zimmerman ha messo su un nuovo gruppo mantenendo il monicker originale.
Il risultato di quest’ultimo è, appunto, ‘Asylum’, disponibile dal 15 marzo 2024 via Massacre Records.
La formula è sempre la stessa: Thrash Bay Area vecchio stampo, solido e ruvido allo stesso tempo, incazzato, sguinzagliato allo stato brado e basato sulla velocità smodata e su un tocco di follia.
Assolutamente nulla di nuovo: ‘Asylum’ mescola Metallica, Testament, Exodus, Slayer, Death Angel per farli diventare Atrophy, esattamente come fatto al loro esordio. In più viene aggiunta una produzione moderna, che porta brani senza compromessi al massimo della detonazione e potenza, lasciando integra la loro natura selvaggia appartenente, per scrittura, più al passato che al presente.
Discorso difficile per dire che ‘Asylum’ ha un buon tiro Old School, energico e ribelle, con nove pezzi lanciati spediti a sfondare qualsiasi muro.
Riff al fulmicotone, una batteria che fa gli straordinari, una voce caustica e decisa (anche se un po’ aiutata da controvoci, riverbero, ecc. ma lasciamo stare … che poi pensiamo alla resa live e roviniamo tutto) e parti melodiche dinamiche con un buon protagonismo delle chitarre. Il Thrash degli Atrophy è da manuale, portavoce di quell’anticonformismo che, negli anni ’80 aveva unito la furia rivoluzionaria dell’Hardcore con la potenza oscura dell’Heavy Metal.
Di contro, il voler correre senza mai fermarsi e l’evitare pause, al massimo il rallentare lievemente ma senza mai scendere sotto il limite di velocità (eccetto un paio di arpeggi in ‘Close My Eyes’ e ‘Five Minutes ‘Til Suicide’ più che altro fini a sé stessi e qualche mid tempo qua e là), porta ad una certa uniformità del songwriting.
Così, mancano quel paio di pezzi che si ricordano, che diventano il simbolo dell’album, che ti fanno dire “questi sono gli Atrophy”. Alla fine ‘Asylum’ è un bel disco ma che, per questo motivo, diventa anche abbastanza anonimo. Non solo, passata la metà (da ‘American Dream’) le tracce diventano anche più difficili da ascoltare, più ostiche nelle strutture, diciamo … ed anche se non sono male il coinvolgimento diminuisce.
Riassumendo: ci troviamo di fronte un buon lavoro, dal sapore genuino, ma che non decolla totalmente … dopo un po’ di salita si assesta e viaggia orizzontalmente.
Valore aggiunto al disco sono Kragen Lum (Heathen), che suona l’assolo su ‘American Dreams’, e Justin Stear (Alphakill), che suona il basso su ‘American Dreams’, ‘Close My Eyes’ e ‘Distortion’.
‘Asylum’ è stato prodotto, mixato e masterizzato da Alex Parra ai Second Sight Studio di Atlanta.