Recensione: At One with None
Dopo un omonimo esordio (2008) dagli spunti interessanti, ma a tratti ancora acerbo, la crescita dei Portrait è apparsa costante, anche grazie alla fiducia di una label come Metal Blade. Se a inizio carriera la sonorità presentavano influenze maideniane e suggestioni à la King Diamond, col procedere degli anni si è accentuata la componente più oscura. Non affidarsi a facili melodie e a cliché abusati ha consentito alla band svedese di emergere tra le nuove leve dedite al metal più tradizionale.
D’altronde proprio in Svezia sono nate numerose realtà nell’ambito della cosiddetta NWOTHM, tra le quali annoveriamo In Solitude (purtroppo disciolti), Trial, Ram, Air Raid, Screamer, Wolf… (non a caso le più interessanti sono passate sotto l’egida dell’etichetta di Brian Slagel).
L’artwork affidato ad Adam Burke (che aveva illustrato magnificamente anche il precedente Burn the World del 2017) sposa perfettamente l’anima in chiaroscuro del sound proposto in At One with None. Delle otto canzoni in scaletta la maggioranza supera i sei minuti, denotando una ricerca di soluzioni profonde e non sempre immediate.
La title-track mostra subito suoni al passo con i tempi, pur in un contesto di metal classico. La voce di Per Lengstedt si muove tra falsetti e parti tirate, senza rinunciare a momenti soffusi. Il clima è sulfureo e tratti di black melodico si insinuano nei fraseggi. Non sono necessarie velocità elevate per dare forza al brano, anche se non mancano accelerazioni, passaggi melodici ed arpeggi che ne arricchiscono la struttura.
Lo spirito degli Iron Maiden si impossessa di Curtains (The Dumb Supper), con armonie aperte, una prestazione vocale che sale nel chorus e l’attento lavoro al basso del nuovo entrato Fredrik Petersson, per un pezzo coinvolgente e dal grande potenziale live. Phantom Fathomer gioca sulla ritmica per imporre la propria atmosfera, attraverso chitarre serrate su cui Lengstedt alterna tonalità epiche e falsetti.
He Who Stands ha un attacco veloce e glaciale, seguito da arpeggi puliti e rallentamenti. Il cantato è evocativo e sussurrato, per poi accelerare nuovamente assieme alla musica, chiamando in causa gli Iced Earth “danteschi” di Burnt Offerings. L’aggressività poggia su un songwriting ricercato, vero e proprio “arazzo” dagli intrecci suggestivi, in un continuo mutare di situazioni.
Ashen è un altro brano dal carattere deciso, col riffing netto di Christian Lindell (membro fondatore assieme al batterista Anders Persson) a condurre l’alternanza di luce e oscurità che pervade l’intero platter. Le numerose variazioni e la gran cura delle parti soliste accompagnano la narrazione di Lengstedt per tutta la durata del brano.
I ritmi veloci e irregolari di A Murder of Crows aprono lo scenario a un horror metal caro al King Diamond più articolato, con in primo piano nuovamente gli assoli di Lindell. Strofe di notevole bellezza, accelerazioni dal forte impatto emotivo e una base ritmica di spessore sorreggono l’anthem Shadowless. Posta in chiusura, The Gallow’s Crossing riassume alla perfezione i pregi di At One with None, tra cambiamenti di atmosfera, aperture luminose, fraseggi oscuri, varietà di registri vocali.
Pur muovendosi in un contesto prettamente heavy metal dalle radici eighties, ci vogliono più ascolti per apprezzare le varie sfumature di questo quinto full-length dei Portrait. Le composizioni del quartetto svedese presentano molte soluzioni, molti “substrati”, tenendosi lontane dal minimalismo che caratterizza le produzioni di alcuni giovani act votati alla riscoperta delle radici del genere. Anche le trame epiche si svolgono su registri non scontati, preferendo l’oscurità all’epos guerresco.
Offrire nuovo slancio e spessore al metal più classico rende merito ai Portrait, avvicinandoli agli inglesi Hell, cult-band nata durante la NWOBHM, che ha continuato a dare credibilità a queste sonorità senza tempo.