Recensione: At the Gate of Sethu
Padri padroni del brutal più tecnico e raffinato, i Nile sono tra i pochi gruppi a non aver davvero bisogno di presentazioni: autori di alcuni tra i dischi più riusciti e celebrati dell’intero panorama estremo, gli americani sono stati capaci di costruire una solida base di affezionati che ha permesso loro di divenire tra gli esponenti più importanti dell’universo metal.
La peculiarità che ha decretato la loro fama è la particolare commistione di death metal tecnico, brutal e musiche folk, che ha reso i nostri una creatura pressoché unica all’interno dell’intera scena musicale odierna.
Dopo aver rilasciato sui mercati “Those Whom the Gods Detest”, accolto come una delle migliori opere di casa Nile e come uno dei migliori dischi del 2009, i Nostri sono dunque pronti a calcare nuovamente le scene.
Intitolato “At the Gate of Sethu”, il nuovo disco continua sulla strada tracciata dal suo predecessore, non apportando modifiche di rilievo: l’unica novità, se così la si vuol chiamare, è il ritorno di Vesano, in veste di ospite, al microfono. La peculiare voce del bassista compare a più riprese durante la tracklist.
Ma come si posiziona questo nuovo lavoro all’interno dell’intera discografia della band? A malincuore, per la prima volta, bisogna ammettere che i Nile hanno compiuto un mezzo passo falso: “At the Gates of Sethu” è infatti uno dei punti più bassi toccati dagli americani, per una serie di cause che andremo pian piano ad analizzare.
Il primo ingombrante problema è rappresentato dalla scelta dei suoni: questi risultano del tutto privi di potenza, il che, vista la tipologia d’uscita, rappresenta un handicap non trascurabile. I riff di chitarra suonano piatti come mai prima d’ora; stesso dicasi per gli assoli, incapaci di lasciare il segno, a causa di un mixing totalmente sballato che tende ad esaltare fin troppo le frequenze alte. Il basso, escluso qualche passaggio qua e là, risulta a malapena udibile e rimane sempre in secondo piano. Anche la batteria di Kollias -autore comunque di una prova magistrale per quanto concerne varietà e solidità- non ne esce indenne: le casse e il rullante convincono poco e mancano totalmente di naturalezza.
Le voci vengono invece discretamente valorizzate: i growl di Sanders e Toler-Wade colpiscono per profondità e potenza, così come il cantato sporco di Jon Vesano, ben integrato nelle composizioni.
Per quanto concerne il songwriting, quest’ultimo parto si attesta su livelli appena sufficienti, senza mai raggiungere l’eccellenza di capolavori quali “Black Seeds of Vengeance”, “In Their Darkened Shrines”, “Annihilation of the Wicked” e del già citato “Those Whom the Gods Detest”. Sfoderando un pizzico della nostra proverbiale malignità, che naturalmente ci perdonerete, si potrebbe quasi pensare che, per la prima volta nella loro ormai ventennale carriera, i musicisti abbiano scelto la strada più comoda, senza sperimentare nulla di nuovo.
Suddiviso in undici episodi, il lavoro scorre senza troppi intoppi, ma al contempo si dimostra incapace di emozionare; le canzoni, seppur gradevoli, difficilmente lasciano un segno indelebile nell’ascoltatore.
Ad “Enduring the Eternal Molestation of Flame” vengono lasciati l’onore e l’onere di aprire “At the Gate of Sethu”. Strutturalmente il brano risulta ben congegnato: la lunga introduzione atmosferica e solenne sfocia in un riff feroce sostenuto dall’enorme drumming di un Kollias, che non si risparmia neanche un secondo. Le continue accelerazioni alternate ai “rallentamenti” (le virgolette, come capirete ascoltando la canzone in questione, sono d’obbligo) conferiscono varietà e dinamicità. Nonostante la traccia non regga assolutamente il confronto con una “The Blessed Dead” o con una “Kafir!”, riesce a svolgere il suo compito alla perfezione, coinvolgendo fin dalle prime battute.
Con “The Fiends Who Come to Steal the Magik of the Deceased” i Nile decidono di pestare ancor più forte: le sei corde, che disegnano linee melodiche serratissime, si appoggiano sui continui blast-beat di Kollias, accompagnando la tanto criticata voce di Vesano. Dotato di grande pathos, il chorus centrale in clean rappresenta la vetta emotiva di un pezzo che, se sostenuto da un produzione adeguata, sarebbe potuto divenire uno dei cavalli di battaglia della formazione di Greenville.
Sulle stesse coordinate si muove anche “The Inevitable Degradation of Flesh”, song invero piuttosto manieristica, ma non per questo fiacca.
Da qui in poi sarà un continuo susseguirsi di titoli che, per quanto formalmente ineccepibili, sanno fin troppo di mestiere e di già sentito: è l’esempio di “The Gods Who Light up the Sky at the Gate of Sethu”, indubbiamente potente e violenta, ma poco ispirata; anche la seguente “Natural Liberation of Fear Through the Ritual Deception of Death”, un vera e propria mazzata sulle gengive, manca del tutto di personalità e anima.
Stesso dicasi per gli intramezzi atmosferici rispondenti ai nomi di “Slaves of Xul” ed “Ethno-Musicological Cannibalism”, che oltre ad essere fuori luogo, si dimostrano incapaci di emergere e di affrontare il paragone con una “Spawn of Uamenti” o una “Dusk Falls Upon The Temple Of The Serpent On The Mount Of Sunrise”.
L’unico brano in grado di colpire nella seconda metà della tracklist è “The Chain of the Iniquitous”, che sfrutta i suoi 7 minuti abbondanti per passare da momenti d’atmosfera e cadenzati ad altri più violenti. Non manca neppure l’occasione di mettere in mostra una buona dose di tecnica esecutiva: la parte centrale totalmente strumentale è dominata da un assolo di chitarra che unisce gusto melodico, velocità da capogiro e complessità.
Se a tutto ciò aggiungiamo anche il fatto che, per la prima volta nella loro storia, i Nile propongono una copertina che, a voler utilizzare un eufemismo, non è propriamente appagante -almeno quella della versione classica- ecco che i pochi detrattori avranno vita facile nel criticare aspramente questo full-length. Un’accozzaglia di figure di divinità egizie affollano uno sfondo ocra, creando un senso di disordine a dir poco fastidioso. La situazione migliora molto con la versione digipack, che gode di una cover decisamente più affascinante ed elegante.
Come chiudere allora questa difficile recensione? Purtroppo i Nile, senza girare troppo attorno alla questione, per la prima volta tirano fuori un album che non va oltre la sufficienza risicata. Un lavoro, questo, fin troppo prevedibile e stanco, che sembra essere nato più per doveri contrattuali che non per una vera e propria necessità artistica. Un lavoro, questo, tenuto a galla solo dalla consueta ed eccellente preparazione tecnica dei musicisti coinvolti e da qualche idea sparsa qua e là.
L’ispirazione altalenante, l’eccessivo mestiere e una produzione quanto mai criticabile danno dunque vita a un prodotto che farà breccia solo nei die-hard fan della formazione americana, ma che lascerà freddi tutti gli altri.
Per ora, purtroppo, non ci rimane che sperare in un ripensamento sul da farsi da parte di Sanders & co.
Io intanto torno ad ascoltarmi i loro capolavori passati, voi fate come meglio credete.
Emanuele Calderone
Tracklist:
01- Enduring the Eternal Molestation of Flame
02- The Fiends Who Come to Steal the Magik of the Deceased
03- The Inevitable Degradation of Flesh
04- When My Wrath is Done
05- Slaves of Xul
06- The Gods Who Light up the Sky at the Gate of Sethu
07- Natural Liberation of Fear Through the Ritual Deception of Death
08- Ethno-Musicological Cannibalism
09- Tribunal of the Dead
10- Supreme Humanism of Megalomania
11- The Chaining of the Iniquitous
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