Recensione: At The Gates of Utopia
Secondo full-lenght per i capitolini Stormlord, gruppo attivo già dal 1991 e dedito a una sorta di variante epica sul tema black sinfonico che, a due anni dall’esordio “Supreme Art of War”, rilascia questo “At the Gates of Utopia”, forte di una proposta che iniziava a distanziarsi dalle sfuriate batteristiche che avevano infiammato l’esordio.
Se non ricordo male trovai l’album durante il primo Evolution Festival: per la verità era già uscito da qualche annetto (2001) ed io, incuriosito da una recensione molto positiva (nonché dalla secondo me bellissima copertina), lo acquistai. In quel periodo mi ero da poco affacciato al black metal, sia melodico che più “ortodosso”, per cui questo lavoro e un paio di altri ebbero il compito di offrire al sottoscritto una visione musicale alternativa ai soliti nomi. Per la verità in questo disco di black vero e proprio non ce n’è praticamente traccia, essendo “At the Gates of Utopia” più una specie di strano miscuglio di riff thrash, screaming vocals e tastiere melodicissime e trionfali, ma ricordo che all’epoca mi piacque molto, nonostante una produzione che penalizzava un po’ le chitarre e il basso in favore delle sunnominate tastiere.
Tralasciando i miei ricordi di gioventù per passare alla trattazione dell’album, parto dicendo che l’apertura è sontuosa e magniloquente, dominata dalle tastiere trionfali di Simone che, dopo una cinquantina scarsa di secondi, vengono affiancate dal resto degli strumenti senza mai perdere, comunque, la loro preminenza. “Under the Samnites’ Spears” (proveniente dal precedente EP “The Curse of Medusa”) rivela subito il cuore e il respiro dell’album, col suo tastierismo imperante, le chitarre ronzanti e il notevole lavoro alle pelli di David. Il brano, nei suoi quasi sette minuti, saltella tra momenti più delicati e romantici e sfuriate più rabbiose scandite dallo screaming di Cristiano che, coadiuvato dal bassista Francesco, propone anche growl e addirittura cantato d’impostazione più liricheggiante (questi ultimi per la verità non proprio memorabili, a mio modo di vedere). Bella partenza, non c’è che dire.
La successiva “I Am Legend” inizia con un riff furioso sorretto da una batteria martellante: la presa si alleggerisce solo durante le sporadiche incursioni tastieristiche e il breve rallentamento groove che occupa la parte centrale del brano, salvo poi tornare a picchiare duro prima del finale più solenne. “Xanadu”, introdotta dal cantato liricheggiante di cui vi ho parlato poco fa, pone di nuovo in primo piano le melodicissime tastiere di Simone, sorrette da riff che in più di un’occasione mi hanno ricordato i classici lavoretti di Jon Shaffer degli Iced Earth e da una batteria sempre puntuale e precisa. Anche qui il growl torna a farsi sentire nella seconda parte del brano, ma per il resto la voce raschiante di Cristiano monopolizza la scena col suo scream aggressivo ma non sempre incisivo. La successiva “…And Winter Was” parte come una canzone black con tutti i crismi: rasoiate di chitarra e blast beat a pioggia, salvo poi svilupparsi con riff meno frenetici e un ritorno in scena delle tastiere che, nel bene e nel male, sono un elemento centrale nel suono dei romani. La canzone continua ad alternare assalti furibondi a passaggi più trionfali, salvo poi tornare a picchiare duro nella seconda parte, poco prima del finale più tranquillo. La title-track altro non è che un semplice intermezzo strumentale che, col senno di poi, ricorda i Bal-Sagoth di “Battle Magic” senza raggiungerne appieno il livello, mentre con la successiva “The Curse of Medusa” i nostri calano l’asso. La partenza eroica della canzone cede presto il passo a una traccia agile ed acrobatica, capace di variare il suo tono tra passaggi più lirici e riff martellanti, tastiere dal profumo epico ed urla sguaiate. Il brusco e solenne rallentamento della seconda parte conduce l’ascoltatore fino alla fine di un brano che punta ad essere il gioiellino dell’album, senza se e senza ma.
“The Burning Hope” parte con un bel riffone thrash, penalizzato però da suoni di chitarra un po’ troppo impastati, cui si accodano quasi subito le tastiere che, però, in questo caso abbandonano il loro protagonismo per fungere da supporto atmosferico al resto del gruppo, comparendo solo di tanto in tanto. Il risultato è una canzone abbastanza interessante ma che, alla fine, non sono riuscito ad apprezzare fino in fondo per via delle scelte di produzione spiegate in apertura. Con “A Sign Inward” Simone sembra tornare protagonista della scena, introducendo il brano con un fraseggio solenne di tastiera e dettando la melodia del brano una volta entrati in scena i restanti strumenti. In realtà anche qui si assiste a una certa alternanza tra tastiere e chitarre, con le ultime che si ritagliano un po’ di spazio aggiuntivo nella parte centrale del brano, appena prima di una bella incursione di voce pulita che spezza per un attimo lo strapotere dello screaming di Cristiano.
Chiude l’album “The Secrets of the Earth”, forse l’unica canzone in cui si percepisce in qualche modo più del semplice profumo di black metal grazie ai riff taglienti e blast beat martellanti, seppur ingentiliti dall’ottimo lavoro di Simone che, con le sue tastiere ora trionfali ora maligne, supporta ottimamente il resto del gruppo in un altro dei gioiellini dell’album.
Com’è, dunque, “At the Gates of Utopia”? Se dovessi trovare un paragone lo definirei come un “Battle Magic” meno visionario, ma più accessibile: sicuramente si tratta di un lavoro molto ben suonato penalizzato però da un bilanciamento dei suoni a mio avviso non perfetto, che toglie un po’ di impatto alle chitarre in favore della batteria e soprattutto delle tastiere le quali, per essere sinceri, alla lunga tendono ad uniformare molto le canzoni facendole sembrare un po’ troppo simili tra loro. Come scrissi per l’appena citato album dei Bal-Sagoth, se siete blackster duri e puri state lontani da quest’album: qui di raw-black non troverete praticamente nulla, quindi poi non venite a lamentarvi. Se invece siete più propensi alle contaminazioni sinfoniche e non conoscete ancora la band capitolina, date un’opportunità a questo “At the Gates of Utopia”: potreste rimanere sorpresi.
Stefano Usardi