Recensione: At The Heart Of Winter
Lo dico fin dall’inizio: la varietà di opinioni è ciò che garantisce lo scambio ed il confronto dialettico fra le persone, e chi scrive ritiene un bene che le idee ed i gusti possano variare da soggetto a soggetto. Questa è una precisazione che bisogna sempre tenere in mente prima di leggere una recensione scritta da un normale essere umano con i suoi gusti e le sue preferenze. Tutto questo per dire che At The Heart Of Winter, disco di cui mi accingo ora a parlarvi, è secondo me, l’apice compositivo degli Immortal.
Già immagino alcuni protestare: -Battles In The North è “storicamente” fondamentale-, verissimo, oppure -Pure Holocaust è il più cattivo- cosa che posso condividere, ma trovo che quello che io interpreto come lo spirito del Black Metal in generale e più in particolare quel peculiare sforzo da parte della nostra band di riuscire a trasmettere puro gelo attraverso la musica, emerga violento e tagliente da questi solchi più che da altri.
La carriera artistica dei norvegesi Immortal può bene o male esser divisa in due parti, la cui scissione corrisponde con la forzata dipartita di Demonaz dal settore compositivo e performativo, per rimanere unicamente come scrittore dei testi.
Lasciando fuori la discussione intorno a quale sia la migliore tra le due, mi interessa qui solo notare come At The Heart Of Winter sia in un certo senso un unicum, molto differente dai precedenti album, ma anche non del tutto paragonabile ai successivi [e purtroppo ultimi] due. Molti hanno descritto il “nuovo” sound di quest’album un Black Metal influenzato da elementi death e thrash per i suoi cambi di tempo, altri dalla NWOBHM per il riffing più “armonico” di Abbath, altri ancora lo hanno definito un disco heavy metal con vocals Black Metal. Certamente non è un esempio di puro e grezzo Black Metal tradizionale, non è un nuovo Pure Holocaust, ma non vedrei assolutamente la nuova direzione come un ammorbidimento “commerciale” solo per la maggior dose di “melodia” e per il fatto che [al contrario di molti dischi Black Metal] è dopo poco possibile distinguere bene una traccia dall’altra.
Al contrario qui Abbath, ora solo alla composizione, ci regala un gioiello, o dovrei forse più appropriatamente dire un cristallo di Black Metal gelido, veloce ma melodico, aggressivo ma pulito, vario e dannatamente atmosferico.
Mi accorgo come faccia fatica a descrivere il sound di quest’album affidandomi solo a categorie “musicali” e come nella mia mente faccia riferimento a categorie di percezione sensoriale di altro tipo.
A partire dall’ artwork di copertina [insolito anche qui giacché per l’unica volta ci risparmia le celebri photo-session dei membri del gruppo e, per la prima volta, si presenta il nuovo e più leggible logo della band] che raffigura un paesaggio innevato, questo album si “sente” nel più ampio senso del termine, è possibile sentire la musica, ma con essa anche il freddo che porta con se e quasi la “visione” stessa di quegli scenari innevati e ghiacciati a cui Demonaz fa riferimento nei testi.
A livello di produzione, anche chi non ama le produzioni scadenti tipiche del Black Metal sound non potrà qui lamentarsi più di tanto, per la prima volta infatti gli Immortal si affidarono agli Abyss Studios, capaci di garantire una pulizia del suono che non và a scapito del, necessario, feeling “sporco”. Ancora una volta mi viene alla mente un paragone “climatico”: una tempesta di neve potete facilmente trovarla violenta, tagliente e gelida, ma difficilmente “sporca”. Ecco dunque il perfetto sound per quest’album: freddo ma anche glacialmente “puro” come la neve. Come sia possibile trasporre con questa abilità ambienti innevati e sensazioni di freddo pungente mi rimane davvero oscuro, ed è ciò che fà grande quest’album rispetto a legioni di imitatori: quel quid che gli permette di trasmettere davvero, ad ogni ascolto, il gelo di terre ghiacciate nel cuore dell’ inverno.
Tecnicamente c’è poco da dire: Horgh si rivelò definitivamente il drummer migliore della storia della band, ed anzi uno dei più dotati nella scena mentre Abbath ricoprì più che degnamente anche il ruolo vacante di chitarrista, suonando certamente con un altro stile rispetto a quello di Demonaz [non troverete neppure uno dei taglienti “assoli” di Demonaz ascoltabili in una Battles In The North], più arpeggiato ma certo non meno glaciale ed ottima fù anche la sua performance vocale, anche grazie ad una produzione ora veramente di alto livello in grado di esaltare al massimo quel suo peculiare, rauco e -anche qui- gelido stile nello screaming.
Rimarrebbe da segnalare i migliori tra i singoli brani, un totale di sei, ma come per ogni capolavoro che si rispetti, non c’è mai un calo di tono ne una traccia più insignificante di altre. Sicuramente memorabili sono l’opener Withstand The Fall Of Time, che ci sbatte immediatamente in faccia lo stupendo riffing furioso e freddo di Abbath, e la title-track che dopo un intro di venti che spirano gelidi e synth atmosferici [gli unici usati nell’album: come dimostrare a certi gruppi che per costruire atmosfere non sono necessarie tonnellate di tastieroni…] ci getta nel mezzo di una glaciale tempesta di neve da cui emerge, simile al suono di due ghiacciai che si scontrano e stridono, la diabolica voce di un Abbath davvero in forma. Ora siamo davvero nel cuore dell Inverno.
Un album bellissimo, [aggettivo terribilmente banale, ma efficace nella sua semplicità] capace di trasmetterci sensazioni ed emozioni, e di piacere anche a chi il Black Metal non piaccia. La cristallizzazione della quintessenza dello spirito “gelido” che ha animato tutta la carriera e la vena compositiva degli Immortal.
Da avere, e da ascoltare, possibilmente in inverno, magari durante una nevicata: ne vale fortemente la pena.