Recensione: Ategnatos
Rinascita. Attraverso la sofferenza, il dolore, la separazione, la morte. I folk metallers svizzeri Eluveitie rinascono a nuova vita con “Ategnatos” (rinascita, appunto, in antico gallico), un concept album che segue a poco più di un anno di distanza l’episodio acustico “Evocation II – Pantheon” (2017); un disco che sanciva importanti cambiamenti in lineup, a partire dalla voce femminile della giovanissima cantante folk Fabienne Erni a sostituire la storica Anna Murpy. Quest’ultima, assieme ai transfughi Ivo Henzi e Merlin Sutter, ha nel frattempo fondato la band alternative rock Cellar Darling e recentemente rilasciato il secondo album “The Spell”, sempre via Nuclear Blast. Approdati di nuovo sulle rive di un genere in bilico tra folk e death metal che ne è essenza e marchio di fabbrica, la band guidata da Chrigel Glanzmann (intervisato da Truemetal) e composta da ben nove elementi resta saldamente ancorata alle atmosfere che l’hanno resa celebre, rifuggendo improbabili palingenesi e reinvenzioni, ma trascinando l’ascoltatore in un viaggio purificante tra divinità celtiche, in perenne bilico tra i riti perduti di un mondo antico e l’irrefrenabile oppressione della modernità. Una rappresentazione parallela dell’antico e del moderno che si riflettono l’uno nell’altro, fatta per immagini ed archetipi senza tempo, dove il male può assumere forme diverse senza mutare nella sostanza, in cui solo l’intelletto può salvarci oggi come allora, nell’anelito incessante e tipicamente umano verso una purificazione ultima che attraverso la sofferenza ed il sacrificio possa farsi vera rinascita.
Oh bright sun of the night I lift my eyes up to thee
Oh ye amber golden light let the dark sweep over me
Mighty cauldron, oh nidus
I surrender all to thee
Panacean nothingness when nothing is left
This was my rebirth
Pur non rappresentando nulla di nuovo in una discografia che conta ormai ben otto album, la faretra di “Ategnatos” può contare su diverse frecce capaci di colpire il bersaglio. Gli echi di “Evocation II” si fanno molto forti in una prova strumentale molto coesa tra i vari elementi in gioco e strumenti a disposizione (flauti, mandolino, violino, arpa celtica, ghironda, cornamusa, percussioni etniche e quant’altro possa ricreare l’atmosfera di un mondo perduto nella leggenda), che alleggerendo in parte la componente più aggressiva ci presenta una tracklist molto varia ed eterogenea. Anche le due voci di Chrigel e Fabienne sembrano ben bilanciate, in un continuo dialogo tra inglese e gallico, tra la rudezza del growl e le melodie soavi del clean.
Il concetto di rinascita era già stato espresso un anno fa, con la release del primo singolo “Rebirth” che ha preceduto l’intero album – che ancora doveva essere proprio scritto. Il tema melodico centrale del brano diviene ora la colonna portante del disco, già evocato nel pezzo di apertura e titletrack “Ategnatos”, ottimo biglietto da visita per l’intero platter con i suoi cori imperiosi che si stagliano come la cascata dell’artwork di Travis Smith, mentre il corvo sembra indicarci la via. Troveremo il singolo alla penultima posizione in tracklist, seguita dalla struggente “Eclipse”, ennesima riproposizione del bel tema cantato a cappella dalla Erni. Da sottolineare l’ottima produzione, fatta anche di effetti ambientali che come in quest’ultimo caso rendono il tutto più cinematografico ed immersivo. Pur non trattandosi di un concept in senso forte con una narrazione continua, la varietà della proposta suggerisce un ascolto continuo, nella mescolanza di numerosi paesaggi musicali.
Nei suoi sedici brani complessivi (al netto di diverse intro e della strumentale “The Silvern Glow”) “Ategnatos” non nasconde la sua anima più commerciale e la tendenza ad un sano fanservice, con brani come “Ambiramus” che sembra lambire l’happy metal o la dolce ballata “Breathe”, mostrando poi i muscoli e tendenze più avanguardistiche coi chitarroni ribassati di “Mine Is the Fury” o con l’arrembante “Deathwalker”, senza mai obliare l’identitarietà della musica folk a sorreggere l’intera struttura compositiva. Molto bello il dittico “The Slumber” / “Worship”, sul tema della ribellione contro un potere oppressivo, più melodica la prima, più oppressiva la seconda – forte anche della presenza di Randy Blythe dei Lamb of God al microfono, unico ospite a comparire nel disco.
Molto riuscita anche “Black Water Down”, una prova corale in cui tutto sembra fondersi alla perfezione, dall’harsh vocal alla melodia del ritornello, fino all’intermezzo a tre quarti su blast beat alla batteria, a rimarcare l’infinito arsenale strumentale degli elvetici.
L’impressione a posteriori è che lo split abbia giovato sia agli Eluveitie che ai Cellar Darling: una rinascita per entrambi per molti versi necessaria. Nella consapevolezza che album come “Slania” (2008) o “Helvetios” (2012) appartengono ormai al passato di questa band, l’anima degli Eluveitie sembra qui rinfrancata, con una lineup coesa e forte di un songwriting vario e frizzante, capace di valorizzare i numerosi elementi che ne fanno parte – contribuendo ognuno col proprio strumento e con la propria arte all’evocazione di un mondo perduto che ha ancora molto da insegnarci, attraverso riti, incantesimi e leggende di oltre duemilacinquecento anni fa. Che le antiche divinità celtiche continuino a proteggere gli Eluveitie!
Luca “Montsteen” Montini