Recensione: Atheists and Believers
A due anni da Tardigrades Will Inherit the Earth tornano i The Mute Gods, con l’ennesimo album dal titolo intellettualoide e artwork spiazzante. Il mastemind Nick Beggs vanta una carriera lunga quasi quarant’anni: ha suonato pop, rock, funk, soul; è stato il braccio destro di Steve Hackett, l’inarrivabile bassista di The raven that refused to sing (capolavoro di Steven Wilson) e ha collaborato con artisti del calibro di John Paul Jones (Led Zeppelin), Kim Wilde, Gary Numan, Engelbert Humperdink, Steve Howe, Rick Wakeman e Iona. Ovvio aspettarsi grandi cose da un simile artista e la decina di pezzi del nuovo platter sono tutti da scoprire visto l’eclettismo messo in campo dal bassista-cantante e gli ospiti chiamati a raccolta. Questa volta i temi affrontati riguardano l’imperante populismo globale, la bêtise umana nel gestire il comune destino che ci lega al nostro pianeta, ma anche riflessioni sulla vita di coppia e sull’invida aetas che nel suo scorrere fa invecchiare il nostro corpo e (forse) non la nostra mente.
S’inizia con la titletrack, un curioso divertissement sci-fi dall’andamento sornione e melodico, con alcuni momenti di ottimo prog. rock centellinato e sano intrattenimento. La successiva “One Day” inizia con il motto «Life is a chemical reaction», un inno anti-religioso che vuole sostenere la completa mancanza di trascendenza nel concetto di vita umana. Troviamo Alex Lifeson (Rush) alle prese con svariati strumenti a corde, ma il suo apporto è poco significativo. Il ritornello è un concentrato iperglicemico, salvo considerare la pesantezza delle liriche materialiste e il ritmo volutamente stanco del pezzo. Più ritmata “Knucklehead”, con parti di slap e sintetizzatori catchy. Il messaggio di fondo è riassumibile nella denuncia della stupidità umana (andrebbe riletto Allegro ma non troppo): Beggs, quale contraddizione provocatoria e autoironica, ammette candidamente di non essere un fan della razza umana. Minnemann invece mostra i muscoli nella sezione centrale del brano (a lui spetta d’altra parte rimpolpare il sound con fill efficaci), che prevede una buona parte strumentale. Per certi versi sembra di ascoltare una versione 2.0 dei The Flower Kings più silly che mai. Gallows humor anche in “Envy the Dead”, brano evitabile, salvo alcuni momenti di insania prog. attorno al quarto minuto, che sembrano preludio a una lunga improvvisazione e invece si risolvono nella ripresa della canonica forma canzone. “Sonic Boom” è una strumentale e richiama da vicino le sonorità dei Porcupine Tree: Beggs e Craig Blundell (ospite alle pelli) hanno lavorato con Steven Wilson, normale che decidano di prendere ispirazione dal suo stile inconfondibile per un pezzo tecnico e tirato. Ovviamente non siamo sui livelli di un “Orchidia” e una “Wedding Nails”, i PT hanno una marcia in più. Con un drastico cambio di atmosfere arriviamo a “Old Men”, brano delicato e meditativo sul tempo che scorre e gli anni che si accumulano. Beggs ha tagliato il traguardo delle 57 primavere, tuttavia questo si vede ancora come artista e uomo propostiivo, e nelle liriche rivendica il desiderio di un nuovo inizio e la voglia di sentirsi ancora giovane. Intimisti anche i testi di “The House Where Love Once Lived”, canzone lisergica basata sul velleitario interrogativo circa i futuri residenti nella casa di una coppia felicemente sposata. Che fine faranno i ricordi legati a quelle pareti? Scompariranno o resteranno come genii loci nelle stratificazioni del tempo che legano storie di spazi e storie umane? Il pezzo è curato, però manca un minimo di incisività e i 300 secondi scorrono senza colpo ferire.
Gli ultimi 20 minuti del full-length regalano alcuni buoni momenti. S’inizia con la voce straniante di “Iridium Heart”, una cantilena robotica che vuole richiamare la cerimonia d’apertura delle Olimpiadi del 1936 in quel di Berlino. Il tema affrontato è il populismo e le menzogne dei politici che sovvertono il concetto di realtà percepita. Il prog. non è un genere che solitamente affronta questi aspetti del mondo, tuttavia Beggs irride le categorie preconcette e compone senza remore. “Twisted World Godless Universe” (gran titolo!) è la composizione più lunga in scaletta e non priva di qualche ambizione. I testi si soffermano sulla dicotomia tra luce e ombra nell’anima umana. Ritroviamo i sintetizzatori retrò di Roger King e la voce filtrata di Beggs, accostata nel finale a quella di sua figlia Lula (che, da quanto apprendiamo, ha sostituito in questa veste una suora finlandese, amica del mastermind, inizialmente destinata per questo ruolo). In definitiva un ottimo pezzo, con tutti i difetti e i punti di forza del sound dei The Mute Gods. L’album si chiude con la toccante “I Think of You”, strumentale unplugged (con Rob Townsend come ospite) scritta da Beggs in ricordo della madre, scomparsa a meno di quarant’anni, quando lui non era ancora maggiorenne. Starebbe bene nella colonna sonora di un film drammatico, commuoversi durante l’ascolto è sacrosanto.
Atheists and Believers è un album discretamente arrangiato e composto, come i due precedenti. Quello che manca è un quid aggiuntivo per consacrare il progetto solista di Beggs. Non basta il ricorso frequente alla dissociazione tra musica e testi (anche i Marillion di F.E.A.R. hanno proposto pezzi melliflui ma con liriche caustiche). Il ricorso a diversi special guest frutta poco rispetto alle aspettative preventivate, manca la voglia di osare e di sperimentare soluzioni progressive che vadano al di là della forma canzone standard. Questo è quanto, restiamo dell’avviso, comunque, che prima o poi i The Mute Gods ci stupiranno con un album davvero degno di nota.
Roberto Gelmi (sc. Rhadamanthys)