Recensione: Atonement

Di Andrea Poletti - 2 Marzo 2017 - 8:46
Atonement
Band: Immolation
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2017
Nazione:
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85

Pregate verso tutto ciò che volete per i vostri peccati

Mendicate il più possibile per la vostra anima

Non c’è alcuna espiazione

‘Atonement’ – “Atonement” – Immolation

La deriva dell’uomo, l’angelo dell’apocalisse che distrugge il creato su fiumi rosso sangue mentre le sue schegge puniranno i peccatori e le case bruceranno tra le fiamme. Questa è la visione descritta nel testo della ‘Titletrack’ e concretizzata nella cover di “Atonement”, decimo studio album dei padrini del Death Metal della East Coast Statunitense; un decimo album che sorprende e conferma, afferma e ribadisce una volta per tutte, come se ne avessimo bisogno, di come gli Immolation sono maestri del genere, non chinano la testa di fronte a nessuno e ad ogni album ribadiscono come la loro superiorità non deve mai essere messa in discussione. Dieci gemme, mai un vero passo falso, dieci album che lasciano intravedere ad oggi come il percorso stilistico del gruppo sia un omaggio e un desiderio di rinascita, un inno verso quei primi dischi che hanno forgiato il monicker nella sabbia del tempo. “Atonement” è molto differente dagli ultimi capitoli se analizzato con accuratezza, potremmo quasi dire che sia l’album migliore dai tempi di “Unholy Cult” o forse ancora prima; con “Kingdom of Conspirancy” alcuni avevano visto nella loro furia cieca una minore accuratezza delle partiture, “Majesty and Decay” portava quel grande concept su lidi a tratti forse un pò troppo melodici, “Shadows in the Light” è stato probabimente il meno riuscito dell’ultima decade e “Harnessing Ruins” ha favorito sonorità nuove e mai utilizzate in passato dal gruppo, aprendo nuovi interessanti orizzonti. “Atonement” è la summa di tutti questi album dove la furia cieca, la sperimentazione, la progressione stilistica e la melodia si fondono per allungare la mano a quel periodo del trittico inziale ripreso anche con la riregistrazione di ‘Immolation’, la definitiva chiusura del cerchio. La novità più eclatante degli Immolation A.D. 2017 è l’ingresso in formazione di Alex Bouks (ex Incantation) in sostituzione di Bill Taylor, che abbandona la nave dopo quindici anni di onarato servizio; il biondo platinato porta poco di suo arrivando all’interno del gruppo a giochi praticamente fatti; possiamo confermare dunque, come da tradizione, che l’intero iter compositivo è stato come al solito suddiviso tra il buon Vigna e lo storico Frontman. Squadra che vince non si cambia, ma è la mentalità, la personalità, l’ispirazione e l’esperienza accumulata che fanno di questo gruppo a tratti inarivvabile, pur rimanendo sempre fedele al classico sound; dove in molti falliscono per ripetitività e saturazione di idee, i nostri vanno oltre e confermano come solo in pochi, solo i migliori, hanno le doti per rinnovarsi senza divincolarsi entro soluzioni fini a se stesse.

Undici canzoni che vedono l’assetto delle diverse strutture combinarsi in modo perfetto tra cambi tempo improvvisi, dissonanze, intermezzi acustici senza però rinuciare al trade-mark fatto da una serie infinita di riff monolitici che lasciano senza fiato; già dalla doppietta inziale, formata da ‘The Distorting Light’ e ‘When the Jackals Come’, si percepisce come le dinamiche non saranno di facile fruizione, tutto è più contorto, una matassa di filo intrecciato che spetta a noi farlo diventare manifattura di prima qualità. La dilatazione delle armonie ci porta a dover aguzzare ad ogni momento l’udito attraverso le architetture mai scontate e sempre al limite, alcune partiture tendono a strizzare l’occhio verso sonorità black metal attraverso la loro innata disarmonia. L’altalena che rallenta e ribadisce la furia cieca, le atonali scale ritmiche di ‘Rise the Heretics‘ o ‘Desrtuctive Currents‘ diventa pregievoli attraverso i dettagli incorporati nei giochi delle due chitarre.  I lati più atipici di questo innovativo corso musicale possono essere ritrovati dentro brani come ‘Fostering Divide’ o ‘Thrown to the Fire’, che riescono alla perfezione a combinare violenza e strutture arzigogolate, la concezione più moderna del gruppo si fonde al meglio con le ritmiche più primitive, riusciendo oggi dove la gioventù zoppicava. Il lato oscuro di “Atonement”, quello che pur rimanendo brutale scava in profondità, lo si ritrova in quell’unico sussulto denominato ‘Lower’, il richiamo alle coordinate di quella ‘Dead to Me’ presente in “Harnessing Ruins” è palese, la sensazione di decadimento abissale e profonda cacofonia è ad un livello così cupo da lasciarti in preda ai tuoi stessi pensieri. Dove nulla esisite, tutto evade e rimani tu nel silenzio più catacombale con gli echi delle tue paure a sorreggerti sul precipizio del non ritorno.

Lower and Lower, my soul sinking lower

Living for indulgence, the trinity of man

Me, myself and I

Il nucleo compositivo che oltre ai due memebri storici, vede l’ormai fidato Shalathy dietro le pelli con il produttore storico Paul Orofino alla torre di controllo, la situazione è completamente sotto controllo anche se l’unica pecca probabilmente è Dolan stesso, magari avrebbe giovato di un basso più presente e leggeremente meno in sordina; l’alchimia tra le parte è così forte e coesa che uno necessita dell’altro per fondersi al meglio, dando vita ogni volta a quel disco che non sarà mai così lontano dalla sua storia precedente, mai così uguale per diventare un clone del passato, ma piuttosto un ulteriore passo in avanti. Con molte probabilità gli Immolation hanno creato il disco più vicino al passato glorioso denominato “Here in After” o “Failures for Gods”, senza dimenticare “Dawn of Possession”; “Atonement” oltre che come già detto essere il nuovo che avanza, mostra l’ennesimo inedito lato del gruppo, quel disco che ci ricorda come la struttura e la verve creativa del gruppo sia identica al 1991. Cambiano gli strumenti, le tecnologie e alcuni componenti, ma se lo spirito rimane il medesimo comprendi come l’attitudine non muore mai; una dimostrazione di superiorita assoluta che vince su tutti quei gruppetti ricercati che alla fine non servono a nulla, ricordando come i “saggi” hanno dalla loro l’esperienza, cioè tutto quel che serve per creare qualcosa di valido a imperitura memoria. Rispetto, i maestri sono tornati.

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