Recensione: Auric Gates Of Veles
La lunghissima e prolifica carriera dei polacchi Hate giunge all’invidiabile traguardo dell’undicesimo album; band onesta, sempre sul pezzo e con una numerosa fanbase ma nel corso degli anni cresciuta poco e mai riuscita a fare un salto di qualità definitivo. La colpa di tutto ciò è sicuramente imputabile all’etichetta di clone di lusso che i nostri non sono mai riusciti a scrollarsi di dosso nel corso degli anni e negli ultimi dischi; il sound degli attuali Hate, per intenderci, non e quello di opere come Anaclasis ma è totalmente debitore e servo dei Behemoth. La svolta black death dei polacchi ha sempre navigato su queste acque e non ha mai provato a metterci del suo, accontentandosi quindi di rimanere in scia a Darski e soci con album discreti e nulla più.
Auric Gates Of Veles sarà la tanto attesa svolta? Assolutamente no, l’acqua è sempre stagnante nella stessa palude, ma almeno è presentata bene con un artwork degno di una band di questo livello e che risulta il migliore finora proposto da combo di Varsavia. Tematicamente si procede con l’esplorazione del misticismo slavo iniziata con Tremendum; Veles, divinità rappresentante l’elemento oscuro dell’esistenza, è protagonista in quasi tutti i testi dell’album e la stessa band descrive l’opera come un invito nel suo mondo.
Il disco è composto da otto brani per un minutaggio che si assesta attorno ai quaranta minuti; apre le danze la violentissima Seventh Manvantara, che pugnala l’ascoltatore alle spalle e pesta come un’ossessa. Si parla delle radici del mondo slavo, del profeta Zoroastro e si viaggia attorno alle civiltà a cui il zoroastrismo ha costruito le fondamenta. I riff sono in tremolo, power chords e sprizzano polonia da tutti i pori; non mancano gli arpeggi più o meno oscuri e sarà così per tutta la tracklist con un giocare tra violenza e atmosfera che scopre sì l’acqua calda ma funziona sempre. Triskhelion preme ancora di più il piede sull’acceleratore ed esce dalle casse come un macigno, con Pavulon che offre una prestazione mostruosa in velocità e resistenza. The Volga’s Veins abbandona per poco i blast beat passando al 2/4 e offre una prospettiva su alcuni eventi della storia russa visti attraverso gli occhi del fiume Volga; si torna praticamente subito all’assalto totale, stavolta in maniera più melodica e, quando ci si inizia a chiedere se il disco sia o no tutto così, arriva Sovereign Sanctity a spezzare l’incantesimo. Il brano parla di una persona che sta morendo in battaglia ma non lascia completamente il mondo materiale; lo vediamo esistere e intraprendere un lungo viaggio nel reame di Veles per poi finalmente tornare. Il pezzo è il più vario e probabilmente il migliore dell’opera; viene giustamente usato come primo singolo e offre notevoli atmosfere assieme a cambi di tempo ben mirati e mai gratuiti. Vi è una grande tessuto atmosferico specialmente in fase di riffing e il solito growl di Adam va a fare la ciliegina sulla torta.
Path To Arkhen si ispira alla trasmissione che militava sui Rai 1 dal 1988 al 1999, Blast Beat Senza Frontiere, mentre la titletrack offre una dimensione più lenta e oscura, che va finalmente a diversificare in maniera massiccia e necessaria. Salve Ignis non è un sonetto per una lavatrice ma si blasta ancora che è un piacere e la noia inizia a fare da padrona, più che altro a causa dei riff che risultano spesso intercambiabili e impersonali. Si chiude con Generation Sulphur e siamo sempre lì: invece di una colata lavica da remember 79 D.C. si riesce a malapena ad accendere un fiammifero che già si spegne.
Non è che Auric Gates Of Veles non funzioni; è un disco prodotto benissimo, confezionato benissimo e che può fare in tutte le maniere la felicità dei fans degli Hate. Manca però quella linfa, quella scorza e quel carisma artistico che ad esempio i Behemoth hanno e applicano anche quando si ripetono dando risultati sempre diversi. Qui sembra che prima si sia voluto andare a manetta e poi si sia cercato di suonarci qualcosa sopra senza ragionare più di tanto, e il risultato è un album sì monolitico, ma anche ripetitivo e dalla solita e famosa longevità di una zanzara. L’undicesimo album degli Hate offre il minutaggio standard di un macello standard passando per stilemi standard, si bea di questo standard e di poco altro. Se vi accontentate dell’agorà estrema ci andrete a nozze, ma se è l’Olimpo che cercate, passate oltre