Recensione: Aurora

Di Daniele D'Adamo - 29 Gennaio 2021 - 0:00
Aurora
Band: Annisokay
Etichetta: Arising Empire
Genere: Metalcore 
Anno: 2021
Nazione:
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84

Post, a significare successivo. Un termine molto in voga in questi ultimi anni, in ambito metal; soprattutto per due generi: il post-black e il post-hardcore. Per rappresentare uno scatto evoluzionistico secco, senza vie di mezzo, atto a raggiungere nuove frontiere musicali. Le quali, in generale, sono indicative di un depotenziamento energetico, di una proposizione di contaminazioni desuete e, soprattutto, di una voglia matta esaltare la fase emotiva.

Nel caso in esame, più che di post-hardcore è più semplice riferirsi al metalcore, anche se, in fondo, tale passaggio non cambia nulla, in termini di forma e sostanza, di quanto gli Annisokay immettono nel loro nuovo nonché quinto full-length: “Aurora”.

Un metalcore spiccatamente melodico, volto verso un mood melanconico, ricco di passaggi nei quali è istintivo l’innesco della tristezza. Elementi, questi, retaggio da anni del metalcore, appunto. Il quale, nel sua eccezione europea, e in particolare tedesca, sembra concepito per entrare in profondità nell’animo umano per sondarne il calore, la forma, i colori e i più reconditi singulti.

Al contrario di quanto potrebbe apparire a un distratto ascolto, “Aurora” è un disco che va ascoltato parecchio e a fondo. Solo in questo caso, allora, emergono piano piano le peculiarità più su citate. Il combo teutonico, difatti, mostra di possedere una grande classe compositiva. Classe che supera nettamente l’impasse di dover gioco forza allinearsi a dei dettami assai rigidi per non uscire dal seminato stilistico.

In effetti il sound del disco, perfetto in ogni sua componente, non si discosta poi molto da altre produzioni similari. Il che, ovviamente, rappresenterebbe un punto debole insanabile. Invece, il grande talento compositivo dei Nostri consente di scavalcare tutto questo grazie a tredici canzoni una più bella dell’altra. È chiaro che deve esserci, pure, una perizia tecnica personale di alto livello, per riuscire a mettere giù le varie idee che ronzano nella mente dei quattro compagni d’avventura. Che, anche in questo caso, si mostrano perfettamente in grado di svolgere il proprio compito con grande professionalità e, in primis, con una coesione tale da rendere la band adulta, irreprensibile nell’affrontare il lungo viaggio che parte dai primi accordi embrionali sino al manufatto finito.

Lo stile è pertanto obbediente agli stilemi del metalcore melodico, in particolar modo per ciò che concerne l’antitesi fra aggressività e morbida dolcezza. Nell’LP questo è il leitmotiv vincente. Voci pulite e ruvide che si sovrappongono, che s’intersecano, che si abbracciano. Batoste di stop’n’go che si susseguono a segmenti di calma, durante i quali la formazione di Halle svolge con la sua bravura il compito di entrare in fondo al cervello e al cuore. Grazie, nondimeno, all’assoluta pulizia dell’ugola di Rudi Schwarzer, cantante che canta davvero, capace di tirare fuori dai suoi polmoni un qualcosa di irresistibile, che si accorda mirabilmente a quell’invisibile quid in più, retaggio dei migliori.

È chiaro, come già detto, che è perfettamente inutile descrivere ogni singolo brano, dato atto che tutti, proprio tutti, meritano di essere assorbiti in egual modo. In virtù di una variabilità che obbedisce alla foggia musicale natia, ma che rende ciascuna traccia un mondo a sé stante. Un mondo da esplorare, in cui immaginare di vagare nello stupore di incredibili bellezze naturali.

Fra tutti i singoli episodi, come sempre accade, qualcuno svetta ancora più degli altri. Come ‘The Cocaine’s Got Your Tongue’, dal ritornello clamoroso, indimenticabile, inaspettato nella sua magnificenza. Oppure ‘Standing Still’, esplosiva song che coinvolge cori e cuori spezzati. O anche ‘Bonfire of the Millennials’, con intarsi di electronic music, molto potente, cadenzata, ma anche introspettiva, nell’obbedienza all’ossimoro che regge l’impianto principale del platter. Da menzionare, infine, la (forse) hit: ‘The Tragedy’, il cui refrain, come da enciclopedia rock, è assolutamente travolgente.

Impossibile non innamorarsi degli Annisokay. Troppo bravi, troppo geniali, troppo indimenticabili. Esattamente come la loro figlia prediletta, “Aurora”.

Daniele “dani66” D’Adamo

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