Recensione: Autumn Eternal
Sbaglio oppure il black metal è un sottogenere europeo nato e cresciuto tra Inghilterra e Svizzera per poi trasferirsi successivamente in Scandinavia? Ho perso un passaggio? Non ricordo nella mia vita di aver mai assistito ad un numero così alto di band statunitensi che suonassero black metal e lo sapessero fare anche bene; diciamocelo, oggi suonare questo o quel genere con questa o quella influenza di un dato paese è pressoché fuorviante e limitativo. Viviamo in un mondo ultraglobalizzato per cui anche negli Stati Uniti, ancora più precisamente nel Kentucky, si riesce a trovare l’ispirazione per creare musica che prende vita nel profondo e si ispira all’habitat per farne lame da rasoio. Per chi non lo sapesse già, il menù di oggi è formato da una cruditè al pepe verde con una spruzzata di Kentucky fried black metal, senza chicken grazie. Senza dire assurdità ulteriori possiamo dire con certezza assoluta che i Panopticon arrivano proprio dal grande stato del Kentucky e segnano l’invidiabile traguardo del sesto album in studio in soli sette anni, con sette ulteriori split all’attivo. Cifre di un certo spessore ma che fortunatamente non hanno mai intaccato minimamente la qualità compositiva presente in ogni singola uscita. Perché sto parlando al plurale ancora me lo sto chiedendo; come potete leggere nelle informazioni riguardanti quest’album la “formazione” è composta da un solo membro effettivo che suona e crea ogni traccia di ogni strumento, la classica one-man-band che oggi non fa più scalpore ahimè. Austin Lunn è il creatore, l’artista, la mente malata, l’essenza primordiale che risiede dietro ogni composizione, ogni linea vocale e dettaglio che viene letta e/o sentita attraverso il monicker Panopticon. Senza buttarla sul ridere, qui non c’è nulla da ridere perlopiù, la strada ad oggi intrapresa da questa creatura è stata silenziosa ed efficace, capace di consolidare il proprio status underground release dopo release, attraverso attenzioni da parte dei media di mezzo mondo senza perdere la testa, rimanendo coerente al proprio status di Kvlt band. Per farvi un esempio, se una band e oltretutto black metal, arriva alle orecchie di alcuni tra i maggiore recensori di YouTube, un motivo ci sarà bene. Se anche noi come testata ne stiamo parlando, un motivo ci sarà bene?
Ovviamente c’è un motivo valido, il voto in calce a fine recensione ci conferma come ad oggi questa sia una delle tante piccole realtà, provenienti dalle terre degli Stati Uniti e al di fuori di top of the pops, in grado di sfornare buona musica senza continuare a sapere di cartone. Già negli anni passati bands quali Xasthur, Leviathan, Krieg, Wolves in The Throne Room, Agalloch e Judas Iscariot hanno tracciato un solco indelebile dentro la breve ma intensa storia degli ultimi anni del black metal, portando i livelli qualitativi da buoni ad eccelsi in un battibaleno. Proprio le bands appena citate possono offrirci un punto di vista sincero di quello che è il percorso sonoro di questo gruppo; le dilatazioni spazio temporali figlie degli Agalloch che abbracciano la malinconica ferocia dei Wolves in the Throne Room per concentrarsi in un secondo momento verso l’Inghilterra, dove i Saor chiudono il cerchio attraverso le lunghe e tempestate ritmiche che oggi sono una manna dal cielo. La bellezza di Autumn Eternal sta nel sorprendere per quanta semplicità e raffinatezza vengano proposte senza andare a consumare i classici cliché di un tempo che oggi pare così lontano quanto irrimediabilmente perenne. Echi che si combattano a vicenda attraverso un minutaggio corposo per portare alla luce growl, screaming, clean vocal, partizioni acustiche ed altre iperveloci da mandare giù di testa ogni amante del suono zanzaroso. Paradossalmente è un black metal progressivo, non tiene conto di un ritmo singolo portato allo sfinimento, preferendo andare ad intrecciare complesse gerarchie sonore che risultano di difficile assimilazione ad un primo istante. La chiusura di un cerchio, la fine di una trilogia iniziata con Kentucky, proseguita poi con Roads to the North e finita oggi, nel 2015, attraverso quello che dei tre potrebbe essere definito l’album più primitivo, grezzo e diretto del progetto. Le atmosfere sono più taglienti e c’è una puzza di marcio ovunque; anche quando fortunatamente si riesce a prendere un po’ di fiato tra una composizione e l’altra la sensazione di sinistro, di qualcosa di inaspettato dietro l’angolo che è li a farti rabbrividire è percepibile ad ogni minuto. Lunn è un personaggio scomodo, da applausi, il riuscire a concepire tutto questo attraverso una mente sola che porta la voce ed un omaggio al proprio territorio, sempre in balia tra finto ed irrazionale è roba che in pochi riescono a concepire. Se come detto è la terza parte di un concept, se è una porzione di un progetto più grande ovviamente ogni traccia è legata a quella accanto; impossibile scindere le due cose, impossibile parlare di questa o quella canzone. Autumn Eternal, deve essere vissuto, respirato e capito fino in fondo, dove un’anima cerca di raccontare, raccontandosi attraverso otto canzoni, un’ora di musica e un artwork tanto scarno quanto efficace. Prendere o lasciare, molte parole spesso non servono e sono più deficitarie che altro; la musica solitamente va ascoltata con attenzione e qui c’è da perderci la testa se applichiamo il conosciuto al percepibile.
Se vi piace il black, a prescindere dalla nazionalità, se siete stanchi dei soliti album usa e getta dove la violenza fine a se stessa non porta che alla noia, se amate perdervi dentro un mondo che non sia solamente la vostra testa, Panopticon–Autum Eternal è il disco che fa per voi. Se le radici del passato vi hanno fossilizzato decadi addietro e non riescono a rompersi passate oltre, non soffermatevi nemmeno. A buon intenditore… a buon intenditore.