Recensione: Awaken The Dreamers
Avevano fatto una promessa, l’hanno mantenuta. Gli All Shall Perish con questo Awaken the Dreamers si allontanano, forse
definitivamente, dalle lande brutalcore che avevano caratterizzato il loro esordio e si spostano su sonorità certamente più elaborate
che tuttavia scontenteranno molti dei loro fans. La voglia di cambiare, di scrivere canzoni sempre nuove e di non fossilizzarsi su di un
genere tanto sbandierata dalla band si concretizza in dodici tracce quantomai variegate in cui due tendenze sono predominanti: una
voglia di risultare ancor più melodici senza cadere però nel classi clichè strofa arrabbiata / ritornello melodico ed una spinta al
virtuosismo strumentale quantomai potente.
Il disco parte con When Life Meant More, forse il miglior episodio del lotto, una canzone che per un attimo ci fa credere che
tutte le voci girate su questo disco fossero in realtà dicerie false e tendenziose: ritmica compatta, screaming infuriato, batteria al
fulmicotone, cosa potremmo volere di più? L’illusione scompare tuttavia nella successiva Black Gold Reign, in cui la rinnovata
vena melodica dei nostri si mostra in tutta la sua potenza attraverso una struttura sempre in tonalità, senza semitoni, senza passaggi
cromatici ad incattivirne l’anima. Il cantante Hernan Amida si lascia pure andare ad un’acuto che ricorda i signori del rock di venti e
più anni fa, episodio fortunatamente unico nel disco e, stranamente, anche riuscito in quanto l’urlaccio esce fuori in un momento
azzeccato e, per il resto, non un accenno di voce melodica fa capolino nella canzone. Per il resto il signor vocalist si caratterizza
per una prestazione di tutto rilievo: inizialmente si sarebbe portati a pensare che egli abbia perso buona parte della versatilità che
lo caratterizzava, in quanto neanche un accenno di shrieking o pig vocals si avverte in questo platter, ma poi, ascoltando meglio, ci si
accorge di come il suo lavoro si sia incentrato questa volta sullo sperimentare dal punto di vista dell’emissione. Pur mantenendo un
registro limitato ai soli growl e scream infatti Hernan molto spesso passa dall’uno all’altro in un solo vocalizzo, dimostrando una
padronanza eccellente della tecnica.
Si giunge dunque alla terza traccia, quella Never Again che tanti commenti poco gentili aveva scatenato quando era stata
pubblicata come anteprima su myspace. In essa si mostra in pieno splendore tutta la componente virtuosistica che caratterizza i nuovi
All Shall Perish, con un Chris Storey sugli scudi che sfodera qualche lick davvero da stropicciarsi le orecchie. Da notare come la
tecnica strumentale dei cinque americani si esplichi in una maniera radicalmente opposta dalla direzione che sta prendendo ad oggi lo
shred chitarristico per quanto riguarda il death metal. Trascinata dal pentacolo della morte Necrophagist, Origin, Visceral Bleeding,
Spawn of Possession e Decrepit Birth la scena attuale si sta orientando su riffing schizofrenici dove il solismo è solo una parte, e
nemmeno troppo importante, della questione. Chris Storey decide invece di fare le cose alla “vecchia maniera”, ispirandosi ai guitar
heroes anni 90 (John Petrucci, Michael Romeo, Rusty Cooley…) in una prestazione che nulla ha a che fare con il death metal, ma che
molto invece deve al progressive… una scelta a mio modo di vedere azzeccatissima, in quanto permette agli ASP di tenersi fuori da una
scena (il nuovo technical death) che ad oggi sta diventando sempre più inflazionata ed alle volte produce dischi davvero
trascurabili.
E le influenze Opeth? Non temete ragazzi, erano annunciate e ci sono anche quelle, le possiamo trovare in Memories of a Glass
Sanctuary, il cui tema portante viene preannunciato qualche traccia prima in the Ones We Left Behind. A dire il vero il gruppo
svedese viene chiamato in causa un po’ a sproposito, in quanto la canzone parte con un arpeggio di matrice più che altro post-core che
un po’ ricorda gli Isis e un po’ i The Ocean di Precambrian, per la precisione di Proterozoic. La canzone è davero bella ed ha nel
cantanto (questa volta melodico) il suo punto di forza, nonostante ad un certo punto si arrivi addirittura ad un ritornello che ricorda
certi System of a Down.
Dopo Memories of a Glass Sanctuary il disco riparte in una specie di secondo ciclo che cerca di ripetere la struttura iniziale con un
nuovo pezzo furioso (Stabbing to Purge Dissimulation), un’altro dove il virtuosismo impera (From So Far Away, dove si assiste al duello
tra Chris Storey e mr Rusty Cooley) eccetera. Passiamo dunque a tirare le somme di questo disco e fin da subito diciamo che esso non è
quel flop che tutti si aspettavano o che tutti avrebbero forse voluto sentire per punire gli All Shall Perish per il loro “tradimento”.
Awaken the Dreamers è un disco che lascia a casa praticamente tutte le sue influenze brutal e si espende nei territori della melodia e
del virtuosismo “vecchia scuola”, che quindi non potrà fare la gioia dei fans di un certo tipo di musica, che farebbero meglio a
rivolgersi a gruppi come Whitechapel e Job for a Cowboy, oppure ad acts come Cryptopsy e Aborted che recentemente si sono avvicinati ai
generi -core. Rimane il fatto che questo disco spacca: per la sua varietà, per la bravura di Chris Storey e Hernan Amida, per la
produzione bombastica e tante altre cose. Sia ben chiaro: esso non è nemmeno esente da difetti, come ad esempio l’eccessivo uso di
breakdowns per lasciare campo libero al virtuosismo sulla sette corde, oppure il tentativo di ricreare canzoni che già avevano avuto
successo su The Price of Existence (Stabbing = Eradication, Never Again = There’s No Business, Black Gold Reign = Day Of Justice…),
ma in fondo questo è un peccato veniale.
Se non siete dei brutalcorers con il paraorecchie ed avete la mente aperta comprate questo disco, dopo cinque o sei ascolti
scoprirete che vale.
Tracklist
1- When Life Meant More
2- Black Gold Reign
3- Never Again
4- The Ones We Left Behind
5- Awaken the Dreamers
6- Memories of a Glass Sanctuary
7- Stabbing to Purge Dissimulation
8- Gagged, Bound, Shelved and Forgotten
9- Until the End
10- From So Far Away
11- Misery’s Introduction
12- Songs for the Damned