Recensione: Axiom
Partiture complesse ed articolate, atmosfere malinconiche, cantato lirico ed espressivo, improvvise aggressioni sonore ed un costante nervosismo di fondo, come un calderone sempre sul punto di tracimare.
Un’anima intricata e dai numerosi volti che spesso si attorciglia in influenze molteplici a seconda della miscela, assumendo talvolta connotati più espressamente heavy, progressive in altri frangenti, thrash in altri ancora, sino alla scoperta delle chitarre ribassate e del famigerato stile “Djent”.
Senza tralasciare un alone decadente dal sapore quasi neoprogressive-alternativo che, in qualche strano anfratto dei ricordi, tende a rimembrare le avanguardie più evolute del genere.
Figli di un’epoca travagliata, instabile e confusa, i danesi Boil giungono al traguardo del terzo full length in carriera, rilasciando con “Axiom” un distillato di notevole talento dalla catalogazione ardua e difficoltosa, prodotto di uno stile musicale teso ad avvolgere miriadi di spunti e derivazioni differenti, all’interno delle quali intravedere i caratteri di un gruppo dalla potenzialità infinita ma non ancora giunta alla completa maturazione.
Descritta sotto la generica catalogazione “progressive”, la nuova opera della band nordica ha, infatti, moltissimi padri putativi ed un numero imprecisato di numi tutelari.
Echi dei primi Nevermore intrappolati nelle chitarre “rimbalzanti” dei Messhuggah. Aperture epico-progressive alla Textures, colorate dalla malinconia di Muse, My Chemical Romance ed Anathema. Visioni annerite di un mondo oscuro e distorto nello stile apocalittico dei Nine Inch Nails, mescolate alla meccanicità cromata dei Mnemic.
Growl death e venature delicatamente crepuscolari.
Un ribollire incessante di linee armoniche spezzate e sensazioni contrastanti che descrivono umori inastabili e dal pallore nostalgico: un approccio che purtroppo, spesso traccia un limite nelle possibilità di successo dei Boil, ingabbiato in composizioni dai toni per lo più dimessi che tanto, troppo, ricordano da vicino alcune deviazioni “pop” romantiche che in molti hanno imparato a conoscere come affini al cosidetto “emocore”.
Nulla di male, soprattutto per i fruitori accaniti del genere: una formula un po’ più indigesta per i sostenitori del progressive-death ruvido, furibondo, irrequieto e cerebrale di stampo nordico che, solo di tanto in tanto, pare prendere il sopravvento e scorrere a briglia sciolta nel songwriting dei cinque danesi, musicisti eccelsi, purtroppo ancora vittime di continue e reiterate indecisioni sulla strada da intraprendere.
Un’idea che compare fulminea sin dalla prima traccia “Sphere”, episodio dall’incedere sepolcrale il cui sottofondo appare come un chiaro furto perpetrato ai danni di Trent Reznor. Mantenere la rotta nella comprensione di quanto espresso dalla band di Aarhus è quantomeno arduo: chitarre alla Messhuggah, ritornello che tanto sa di Muse e sprazzi growl nella scia dei Textures, si fanno spazio un po’ ovunque: “In A Blink Of An Eye”, “Equilibrium”, “Ashes” risultano così, brani senza dubbio baciati dal dono dell’originalità, ma in altri termini ed in ugual misura, forse un pizzico ridondanti ed indecifrabili.
La complessa struttura articolata dal gruppo di Jacob Løbner lascia in ogni caso il segno e, pur non affermandosi quale creazione assoluta e necessaria, si ammanta di un fascino indiscutibile che rende possibili innumerevoli sviluppi.
La percezione costante è, infatti, paragonabile a quella di un’atomica sul punto di deflagrare con conseguenze devastanti: ciò che ancora difetta è proprio il proverbiale detonatore. O forse, la piena consapevolezza di come utilizzarlo.
In altri termini, l’impressione fornita dall’ascolto di “Axiom” è, concretamente, quella di vedere (o meglio, ascoltare) scorrere una grande dose di talento – di quello luminoso, magnifico e cristallino – ancora tuttavia da focalizzare in modo compiuto verso una direzione che consenta di esprimere al meglio tutta l’immensa carica espressiva di cui può disporre. Per ora, tantissima carne al fuoco in nemmeno cinquanta minuti di musica, per un album che i fan delle ricercatezze e dei suoni evoluti potranno senz’altro apprezzare.
I Boil sono insomma, una band dalle indubbie prospettive ancora in parte incompiute: qualora la ricerca sonora dei cinque danesi dovesse avere successo, condensandosi felicemente in uno stile di composizione meno ondivago e mutevole, i risultati, gli esiti futuri e le chance di successo, potrebbero essere semplicemente eclatanti.
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