Recensione: Babylon

Di Lorenzo Maresca - 18 Gennaio 2016 - 10:00
Babylon
Band: VIII Strada
Etichetta:
Genere: Progressive 
Anno: 2015
Nazione:
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78

Nonostante un momento storico non molto favorevole, il progressive italiano può ancora fare affidamento su numerosi musicisti, i quali, spinti da sana passione, riescono a portare avanti questo genere con risultati di qualità. Nel 2008 lo hanno dimostrato gli VIII Strada con il loro disco d’esordio, La Leggenda Della Grande Porta, grazie al quale hanno ottenuto molte critiche positive e un tour assieme a Patrizio Fariselli degli Area. Dopo sette anni la band milanese torna con Babylon, un concept album che vuole raccontare la difficile relazione tra un uomo e una donna, tuffandosi in profondità nella mente dei protagonisti. Il nuovo album porta anche un cambio di formazione, con l’ingresso di Davide Zigliani alla chitarra e Sergio Merlino al basso.

Spesso vengono etichettati come progressive metal, ma andrebbe precisato che le principali fonti di ispirazione degli VIII Strada sono i grandi gruppi che l’Italia poteva vantare negli anni Settanta, soprattutto Banco del Mutuo Soccorso, P.F.M. e Le Orme. Allo stesso tempo si sentono influenze che potrebbero ricordare i Dream Theater di Six Degrees Of Inner Turbulence; le chitarre sono piene e corpose, ma cercano sempre la melodia, mai l’aggressività sonora tipica del metal. Quindi, se c’è fortunatamente uno sguardo a gruppi più moderni, l’intenzione rimane quella di suonare una musica che porti le caratteristiche del nostro paese, a cominciare dai testi, ovviamente in italiano.
Atmosfere tra il fiabesco e il romantico, suggerite già dalla copertina, arrangiamenti curati e un panorama sonoro in continuo cambiamento: queste sono le caratteristiche principali di Babylon. La tastiera di Silvano Negrinelli è lo strumento che attira per primo l’attenzione, e attorno a essa prendono forma la maggior parte dei pezzi, passando da momenti sinfonici a intermezzi fusion fino a complesse parti strumentali dove ogni componente riesce a mettersi in mostra. Proprio per questa abbondanza di idee il disco ha bisogno di diversi ascolti prima di essere apprezzato del tutto. Non che il primo impatto sia confusionario, ma di certo ci vuole un po’ di tempo per assimilare le numerose “trasformazioni” dei brani, che spesso arrivano nel giro di un minuto o poco più. Difficile, quindi, descrivere il carattere e l’atmosfera dei pezzi, che non solo alternano pieni e vuoti nell’arrangiamento, ma a volte cambiano del tutto umore. “Ombre Cinesi”, primo brano nonché uno dei migliori, non si lancia ancora in strutture stravaganti, ma mantiene un buona dose di tensione che parte da un ipnotico giro nell’intro e arriva all’ottimo assolo di chitarra, per sfociare in un finale molto tirato. Anche “1403, Storia in Firenze” resta piuttosto lineare, ma punta su un ritornello più diretto e un minutaggio limitato; non a caso si tratta del primo singolo dell’album. Ma è sulle altre tracce che il gruppo si sbizzarrisce davvero, mettendo in mostra la sicurezza di musicisti con anni di esperienza alle spalle, non solo per quanto riguarda la tecnica, ma anche nella composizione. Fra tutte spicca “Eclipse Anulaire”: l’inizio è misterioso, con archi e pianoforte in punta di piedi, la voce di Tito Vizzuso resta bassa e morbida, ma subito l’atmosfera si rilassa grazie a poche delicate note chi chitarra acustica. In un attimo tutto torna oscuro, entra la distorsione e un riff sbilenco ci disorienta per qualche secondo. Di nuovo sembra tornare il sereno, ma proprio qui arriva la parte più movimentata, con una sezione strumentale che vede pianoforte e chitarra intrecciarsi in alcune delle melodie più belle del disco; verso il finale il sound si fa via via più cupo, pesante, eppure si tratta solo di un altro momento di passaggio, perché il brano si conclude dolcemente, come se nulla fosse accaduto. Alcuni pezzi forse sono ancora più vari, come la title-track, che in dieci minuti alterna parti sognanti, divagazioni quasi jazz del piano e ritmiche rock in completa naturalezza, del tutto slegata dalla forma canzone. Da segnalare anche “Slow” che parte come un elegante brano d’amore ma prende una piega diversa nell’immancabile sezione strumentale.

Insomma, Babylon è di sicuro un buon disco, l’unico appunto che si potrebbe fare riguarderebbe solo la vicinanza ancora molto forte con i gruppi storici italiani. È vero che, come già detto, c’è qualche influenza moderna, ma le composizioni, le idee di base, devono quasi tutto al progressive degli anni Settanta. Non c’è niente di male, è chiaro, soprattutto quando il risultato finale è di qualità, come in questo caso; tuttavia stiamo parlando di un genere che dovrebbe avere tra le sue priorità cercare strade inesplorate, tentare sempre di qualcosa di diverso, e qui la band ha ancora la possibilità di migliorare. Per il resto si può solo fare i complimenti agli VIII strada, a cominciare dalla produzione di ottimo livello, per finire alla performance dei musicisti, impeccabili e preparati. In definitiva il nuovo album non può che confermare i consensi che aveva già ottenuto il debutto, quindi mettetecela tutta ragazzi, spingete ancora un po’ per trovare una vostra voce completamente unica, perché gusto e tecnica non vi mancano.

 

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