Recensione: Babysteps
Henning Pauly, ancora lui. Non pago di aver messo in bisaccia la bellezza di sette album in neanche tre anni, l’istrionico polistrumentista tedesco torna alla ribalta con il suo terzo gettone solista, un’ambiziosa metal opera forte di un cast d’eccezione.
Interprete principale è l’esperto Jody Ashworth, autore di una prova di grande personalità, sebbene non certo ai livelli di quella, strepitosa, immortalata sul capolavoro “Beethoven’s Last Night” della Trans-Siberian Orchestra. Al suo fianco spiccano l’ormai onnipresente James Labrie (Dream Theater), di ritorno al fianco di Henning dopo i fasti del primo Frameshift, il fido Matt Cash (Chain) e il grande Michael Sadler (Saga). La storia, ispirata a fatti realmente accaduti, narra di un ex-atleta ridotto sulla sedia a rotelle, mostra la sua solitudine, la sua rabbia, la sua disperazione, e racconta, senza ottimismi ingenui o banalità retoriche, come le cose possano cambiare a partire dal più casuale degli incontri.
Dal punto di vista musicale, l’album si snoda nel corso quindici tracce, di cui cinque interamente strumentali, nel complesso capaci di reggere con compattezza lo scorrere dei minuti. Come Henning ha più volte dimostrato con i suoi precedenti lavori, il suo stile mostra di sapersi reggere con le proprie gambe, mantenendosi a debita distanza dagli abusati stereotipi del genere. Dinamico, solido, per ampi tratti teatrale, il sound di “Babysteps” è un soffio di aria fresca nel panorama prog moderno, accostandosi soltanto nei suoi passaggi più enfatici ai Savatage dell’ultimo periodo.
Non lasciatevi ingannare dal concept dal piglio sofferente e introspettivo. Tutto il contrario: l’incipit è concitato e burrascoso, e tra “I Don’t Need You” e “ Listen To Me” c’è poco spazio per la riflessione. Ashworth si cala subito nella parte con la teatralità interpretativa che gli è propria e Labrie ribatte con una raffica di strofe velenose, mentre Cash si sforza di separare i due contendenti. Il meglio tuttavia arriverà più tardi, nello snodo centrale dell’album. Infatti, dopo la vivace “Not a Piece of Paper”, impreziosita da un bell’assolo di Jim Gilmour al piano, la grandiosa “Whenever You Dream” si apre in tutta la sua magnificenza, brillando per la raffinata eloquenza delle orchestrazioni. A contenderle il ruolo di capolavoro dell’album si para “A Place in Time”, brano dinamico e incalzante nel quale si concentra la prova di Sadler – probabilmente la migliore tra quelle dei vocalist, senza nulla togliere agli altri. Tra i magnifici cori e i mirabili intrecci vocali, più che altrove vicini ai Savatage di “The Wake of Magellan”, spicca l’ottimo solo di chitarra dell’ultimo Saga accorso alla corte di Pauly, Ian Crichton.
Di qui alla fine la tracklist si assesta su livelli più che positivi, senza tuttavia regalare altri fuochi d’artificio, pur mostrando una rapida crescita nel finale.
Bilancio ampiamente positivo, dunque, ma d’altro canto non si può nemmeno sorvolare su alcune pecche fondamentali che impediscono a “Babysteps” di arrivare là ove probabilmente avrebbe voluto. Se infatti il team di interpreti convocato da Henning è senza dubbio di prima scelta, la scelta dei ruoli non pare, a un esame accurato, la più efficace. In particolare, pur nell’eccellenza delle rispettive prestazioni, avrebbe forse giovato un scambio di posizioni tra il burbero Ashworth, fin troppo autorevole per il ruolo travagliato che si trova a interpretare, e Labrie, già più credibile nei panni dell’eroe conflittuale (si pensi agli Ayreon di “The Human Equation”).
Inoltre, se da un lato è vero che la lunga tracklist riesce a non cedere alla tentazione dell’episodio riempitivo, dall’altro lato è altrettanto vero che i pezzi veramente memorabili sono presenti in numero piuttosto ridotto, e se si vuole procedere oltre la sensazione di piacevolezza dell’ascolto il rischio è di ritrovarsi tra le mani un po’ meno sostanza di quel che si pensava. Insomma, se questo “Babysteps” doveva essere davvero il magnum opus di Henning Pauly, forse concentrarsi un po’ più a lungo ed esclusivamente su quest’opera, prendendosi il tempo per riposarsi dagli altri progetti, avrebbe giovato al risultato finale.
Al di là di tutto, comunque, quel che resta è un album nettamente sopra la media, da ascoltare a lungo prima di giudicare. Non un capolavoro forse, come poteva essere nelle speranze del suo autore, che finora sembra avere dato il meglio nella doppia uscita con i Frameshift, ma sicuramente un’opera di livello, che non mancherà di soddisfare quanti siano in cerca di un disco metal coinvolgente e complesso, composto e suonato con maestria, per una volta lontano dai soliti stilemi.
Gli appassionati possono continuare a tenere le orecchie tese vero Henning, ormai vero e proprio punto di riferimento nel genere, con la consapevolezza che non tarderanno a sentire novitàda parte sua.
Tracklist:
01. The Cafe 1
02. I Don’t Need You
04. Listen To Me
05. The Cafe 2
06. Not Just A Piece Of Paper
07. Whenever You Dream
09. A Place In Time
10. What Do You Know
11. The Cafe 4
12. The Door
13. I See
14. The Last Song
15. The Cafe 5
The singers:
Jody Ashworth: Vocals on 2, 7, 9, 10, 12, 14
Matt Cash: Vocals on 3, 6, 9, 14
James Labrie: Vocals on 4, 10, 13
Michael Sadler: Vocals on 9
Henning Pauly: Backing vocals on 12
The instrumentalists:
Henning Pauly: Everything except where otherwise indicated. Mixing and Mastering
Marcus Gemeinder: Piano on 4, 7, 10
Ian Crichton: Guitar Solo on 9
Jim Gilmour: Piano and Keyboard Solo on 6