Recensione: Back on Ancient Traces
Strydegor, il guardiano dell’idromele secondo la mitologia nordica. Germania. Una tracklist che non lascia molto all’immaginazione. Il mercato europeo da’ il benvenuto all’ennesima compagine del Viking Metal. Dove volegeranno lo sguardo? Verso l’esplosivo power degli Equilibrium? Verso il folk dei Falkenbach? L’Epic mastodontico dei Menhir? O nascerà un nuovo genere?
A dire il vero, all’inizio la sensazione di deja-vu colpisce come un fulmine a ciel sereno, ma rimane di taratura indefinita. Si sente che c’è qualcosa di familiare, ma i nomi fanno fatica a saltare in testa. Pochi riff più tardi, il growl e lo scream alternati, il tipicissimo sound della chitarra ritmica e le strutture dei brani non lasciano più alcun dubbio: l’impianto è quello di un perfetto death viking melodico di scuola svedese e le muse ispiratrici sono cinque “sconosciuti” banditi di Tumba che da dieci anni a questa parte rappresentano la pietra di paragone per tutto il viking death moderno.
Particolarmente sorprendente è la voce e il modo in cui viene utilizzata: ascoltando questo “Back on Ancient Traces” ci si chiede “cosa sarebbe successo se gli Amon Amarth avessero fatto un altro album nel periodo di Sorrow Throughout the Nine Worlds?”.
Tutto più o meno porta a quel periodo, ad eccezione dell’andatura decisamente più rilassata, e la cosa suona tutt’altro che un male vista la grande fama di cui godono i primi album degli Amon Amarth, peraltro ritornati in auge grazie alle pompose e recenti ristampe di Metal Blade. Ciononostante, non è facile affiancare immediatamente mostri sacri con sette album alle spalle e quindici anni di esperienza e le limitazioni – dovute per lo più all’inesperienza – vengono presto a galla.
L’album non comincia bene: le canzoni di apertura sono eccessivamente irregolari e prive di direzione, mi riferisco in particolare ai movimenti centrali di “The Night the Vikings Arrive“, sparsi e poco incisivi. L’inizio quasi “rock ‘n’ roll yeah” della successiva non aiuta a inquadrare per bene la direzione che intende intraprendere l’album, ma al termine del brano sono arrivato a chiedermi se avessi appena ascoltato una canzone scartata da Vs. The World.
Superato il primo scoglio vagamente disorientante l’album inizia a sorprendere, diventando via via sempre più compatto, deciso e ben strutturato. I riff monotoni e ossessivi tipici del genere si sposano con una tecnica per lo più sufficiente, anche se c’è ancora molto da lavorare nel campo delle percussioni che appaiono generalmente blande e talvolta persino inutilmente preponderanti, come nel caso di “Ragnarok“.
“Originalità” non è parola conosciuta in casa Strydegor, ma non è detto che non si possa presentare una proposta fresca e interessante pur aderendo a un set di canoni già prestabiliti da tempo. I riff sono sempre convincenti e lavorano efficacemente nell’economia dei singoli brani; tracce come “Ravens Over Midgard” e “Tears in the Storm” hanno la potenzialità per diventare mostri da palcoscenico e gli Strydegor hanno recuperato un sound che, una volta raffinato, può tranquillamente muovere decine di migliaia di persone nei festival europei più blasonati.
Il vero problema è sempre l’ombra incombente degli Amon Amarth. Il cantante Florian Kunde ricorda molto da vicino un giovane Hegg, specie nell’uso dello scream e nel tono del growl, malvagio ma non eccessivamente catacombale come quello dell’Hegg incattivito post-Vs. The World. Tra le pieghe delle nove tracce di “Back on Ancient Traces” si nota ancora l’inesperienza della band e la scarsa capacità di mantenere inalterato e coeso il filo conduttore dell’album.
Le capacità della band, pur se tra alti e bassi, sono innegabili e come esordio siamo decisamente sopra la sufficienza. Gli Amon Amarth non hanno mai visto nascere una vera e propria competizione sul proprio campo sia stilistico che concettuale, e anche se non è facile rincorrere e reinventare, questi tre tedeschi mi hanno convinto e penso di annusare qualcosa di interessante per il loro futuro che esula da questo piccolo esercizio di stile paragonabile a una specie di Fate of Norns leggermente più dinamico. L’album cresce con gli ascolti e la seconda metà è davvero ben rifinita per essere il prodotto di tre ragazzetti sul mercato da nemmeno due anni e che si presentano al grande pubblico con l’ennesima foto “silvestre” tra spade, corni e fiaccole. Augurandogli di trovare un nuovo chitarrista dopo la tragica morte del precedente in un incidente stradale, rimaniamo in attesa del prossimo passo.
Daniele “Fenrir” Balestrieri
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TRACKLIST:
1. Dead Man’s Shore
2. The Night the Vikings Arrive
3. Wild Hunt Through Twelve Nights
4. Ragnarok
5. Oden’s Wrath
6. Ravens Over Midgard
7. Baldur’s Dreams
8. The Way to Valhall
9. Tears in the Storm