Recensione: Back to the Land of the Dead
Gli Ancient sono tornati sul mercato, più precisamente sono tornati dai morti come suggerisce il titolo di questo nuovo album, visto che per ben dodici anni di loro non se ne è avuta alcuna traccia. Cosa, come, perché e quando poco importa dato che oggettivamente ciò che conta realmente è il prodotto che oggi si ha tra le mani. Ciò che ha sempre contraddistinto il gruppo dagli altri della scena è la sua innata voglia di “nomadismo corrotto”, dove le terre di Norvegia, Grecia, Italia e Stati Uniti sono state periodicamente patria e non di questa band, folle e discontinua nel suo piccolo quanto geniale sotto certi aspetti. Ovviamente il 1992, anno di nascita ufficiale del gruppo, è distante anni luce e quelle piccole gemme che hanno lievemente innalzato il nome del combo nel passato ad oggi non si possono più soppesare, forti un di un sound che bene o male è andato plasmandosi e mutando anno dopo anno, figuriamoci poi dopo 12 di silenzio assoluto. Certamente il mastermind Zel è colui che guida la truppa verso la realizzazione di ogni brano, un padre padrone che di diritto si prende possesso della sua creatura, diventando unico punto di rifermento in questa lunga carriera. Oggi al suo fianco troviamo il famoso “ex Dimmu Borgir” Nick Barker dietro le pelli e il suo braccio destro Dhilorz, che dal 2001 non lo abbandona, diventando secondo compositore e attore non protagonista degli Ancient AD 2016. Dopo questa breve ma efficace retrospettiva, eccoci signori e signore a raccontare di questo album, “Back to the Land of the Dead”, figlio di tredici brani (cover dei Bathory annessa) e sessantacinque minuti di durata che, ad onor del vero, diventano troppi e prolissi. Perché? Semplice a dirsi poiché questo nuovo parto degli Ancient poteva rimanere a riposo che forse e ribadisco forse, non ne avremmo sentito la ben che minima mancanza.
A livello concettuale l’album non è realizzato male, è la base realizzativa che sente la mancanza di qualcosa che lo faccia spiccare dalla massa multiforme che in giro si trova quotidianamente; l’underground del black metal è cresciuto talmente tanto velocemente e con qualità che a risentirne sono proprio quei gruppi, come gli Ancient, che tentano ancora di riproporre qualcosa di “antico” con uno spirito moderno tendenzialmente troppo pretenzioso. Potrei citare una qualsiasi canzone lungo la tracklist, che non vi sarebbe alcuna differenza se testi e musiche venissero mischiati, la sensazione di generalizzato è insita dentro ogni brano; dall’iniziale ‘Land Of The Dead’, passando per la poco congegnata e quasi abbozzata ‘The Empyrean Sword’ sino alla agghiacciante ‘The Spiral’ che quasi dona un fastidioso incedere interiore con suoni al limite del sopportabile. Anche la ipotetica suite formata da ‘Defiance And Rage’, ‘The Prodigal Years’ e ‘The Awakening’ è comprensibile quale grande insieme solamente per la centrale armonica che collega i due veri e propri brani; purtroppo la sensazione di avere di fronte qualcosa di veramente poco sentito latita in retrovia, come se questi dodici anni in cantina siano stati più un favore alla scena piuttosto che un modo per risalire dalle tenebre con qualcosa di valido. Senza andare a citare ogni singolo brano è pregevole il fatto che alcuni spunti interessanti siano alla mercè di tutti, stacchi e soluzioni discrete come su ‘The Sempiternal Haze’ e il suo gioco di batteria-chitarra molto interessante, lo stacco centrale dentro ‘Occlude The Gates’ e la conclusiva ‘Petrified By Their End’ dimostrano come a tratti una personalità c’è ancora nel gruppo, ma forse ad oggi poco caratterizzata e di impatto per riuscire ad emergere. “Back to the Land of the Dead” è un prodotto che se ascoltato tra mille, vista come detto la qualità e la attitudine di molti acts dell’underground, perderebbe in partenza assestandosi sugli scaffali senza passare spesso nello stereo. Certamente anche la produzione non offre la voglia di andare avanti, facendo diventare veramente frustrante arrivare in fondo senza pensare dentro di se ‘ma quanto manca?’. Piatta e senza carattere diventa fin troppo laccata ai fini di un album black che teoricamente dovrebbe provenire dalla madrepatria Norvegia, lo spirito di un gruppo che era stato valido in tempi trascorsi oggi è dissipato nell’ombra del tempo.
Vediamo il bicchiere mezzo pieno e proviamo a prendere questo nuovo parto in casa Acient come il primo passo per una carriera 2.0 che deve rinascere e prendere forma dalle ceneri di dodici anni di silenzio. Le basi per costruire qualcosa di valido ci sono, ma ad oggi bisogna mettersi sotto con qualcosa di meno generico e più personale, se così non fosse auguri e figli maschi. La norvegia e i tempi antichi sono molto lontani, probabilmente a volte i morti non devo essere risvegliati, si rischia di rimanerci molto male. A buon intenditore…