Recensione: Bacterya
Argentini d’origine, ricollocatisi in Belgio, forti di una line-up che abbraccia membri di entrambi i paesi, i Vibrion vantano una biografia che si estende fino al 1992 come anno di nascita, quando in Argentina le death metal band si contavano sulle dita di una mano; ma prim’ancora i nostri mietevano terrore e raccapriccio sotto il monicker di Chacal. I titoli all’attivo sono cinque, tre full-length, un EP ed un live; “Bacterya” è stato pubblicato a marzo di quest’anno, dopo uno iato considerevole se si pensa che l’ultimo album in studio (“Closed Frontiers”) risale addirittura al 1997, dunque quasi un decennio durante il quale la band è stata in un limbo sospeso tra la pausa a tempo indefinito e lo scioglimento.
Analizzato al microscopio, che caratteristiche presenta questo batterio intercontinentale? Prendete l’ignoranza dei Master, la sporcizia dei Pungent Stench, gli intrecci dei Morbid Angel (del tempo che fu) e una timbrica vocale alla Max Cavalera di “Beneath The Remains” / “Arise”, tutti nomi che sul calendario fanno pensare al passato, alla vecchia scuola. All’incirca le coordinate sono quelle, anche se buttarla solo sulla nostalgia canaglia sarebbe ingiusto nei confronti dei Vibrion, i quali ce la mettono tutta per ricavarsi un posto sotto i riflettori. L’ascolto di “Bacterya” permette di cogliere immediatamente un tratto caratteriale evidente dei Vibrion, la band è dotata, tecnicamente ha un potenziale che emerge, si annusa, c’è.
Il versante compositivo invece è quello che fa storcere la bocca, a maggior ragione se, come detto, si pensa che il quartetto una propria personalità forte l’avrebbe. I Vibrion sembrano rinunciare alla strutturazione del proprio songwriting, annegando senza tregua ogni fraseggio nel blast-beat. E se non è blast-beat è un frollìo incessante della doppia cassa. Tutte le trame chitarristiche, i solos acidi e dissonanti, le atmosfere e la conduzione vocale di Cederborg vengono annichiliti dal continuo ed ininterrotto mitragliare della batteria, anche laddove non ce ne sarebbe alcun bisogno, perché le corde degli strumenti parrebbero andare in tutt’altra direzione, o perché comunque delle diverse aperture porterebbero un dinamismo ben maggiore alle architetture dei brani. Di contro, quando proprio i Vibrion – bontà loro – decidono che è ora di concedere una minima pausa (ed accade assai di rado), rallentano quasi parossisticamente, creando un contrasto eclatante e talvolta stonato.
Gli elementi insomma sembrano dosati male. Mi si dirà che anche “Reign In Blood”, ad esempio, è un album di una intensità devastante e pressoché esclusivamente poggiato sul tupa-tupa di Lombardo. Vero, però attenzione, intanto quel tupa-tupa è meno asfittico, permette comunque agli altri strumenti e ad Araya di ricavarsi i propri spazi, di aggiungere colore e sfumature alle canzoni, va ad integrare la resa di insieme (sebbene con violenza belluina) non a cannibalizzarla. Il buon Les Pessy dei Vibrion (immagino di comune accordo con il resto dei compagni) passa come un rullo compressore su qualsiasi cosa gli si pari davanti, diventando un protagonista assoluto dello studio di registrazione. Senza saper niente di questi ragazzi, si potrebbe quasi pensare che l’album sia il project solista di un qualche batterista in cerca di visibilità.
Manca l’aria durante i tre quarti d’ora di “Bacterya” e la cosa dispiace perché il materiale di per sé non sarebbe affatto da buttare, né la band da bocciare; è evidente come i ragazzi non siano dei metaller qualunque da cantina qualunque senza alcun orizzonte di gloria ad aspettarli. E’ che la loro scelta (se di scelta consapevole fino in fondo si tratta) è davvero elitaria e dogmatica, e presuppone un pubblico disposto a seguirla senza se e senza ma. Non conosco i precedenti lavori dei Vibrion e non sono in grado di fare un parallelo col passato, mi auguro soltanto che il futuro conceda qualche colore in più sulla tavolozza pittorica dei Vibrion, perché quando tutti i fan all’ascolto saranno agonizzanti e cianotici, continuare a produrre dischi così afosi ed opprimenti diverrà quasi un vezzo autoreferenziale e fine a se stesso.
Marco Tripodi