Recensione: Badlands
Al giorno d’oggi citare i “Badlands” su una qualsiasi rubrica che si occupi di hard ‘n’ heavy scatena quasi automaticamente commenti entusiastici e valanghe di consensi a testimonianza dell’ormai consolidato status di cult band e dell’aura di mito creatasi attorno alla loro sventurata vicenda, eppure, nonostante il pressoché unanime apprezzamento riservatogli attualmente, il gruppo di Jake E. Lee e Ray Gillen, a suo tempo, non riuscì mai realmente a “sfondare” e ad emergere dalla fin troppo nutrita schiera dei cosiddetti Led Clones.
Il nome di Jake E. Lee è da sempre legato a doppio filo alle vicissitudini della band di Ozzy Osbourne. Fu, infatti, proprio il “Principe delle Tenebre”, dopo la breve parentesi del 1983 con Brad Gillis e una lunga serie di provini, ad individuare in lui l’ideale sostituto dello scomparso Randy Rhoads e ad introdurlo dalla porta principale nel luccicante circo dell’HM a stelle e strisce.
La convivenza tra i due, a dispetto dei successi discografici ottenuti con “Bark At The Moon” e “The Ultimate Sin”, non fu però delle più distese, tanto che a seguito dell’ennesima sfuriata del Madman la situazione si risolse, nel 1987, con l’ingaggio del giovanissimo Zakk Wylde e con l’allontanamento di Jake, catapultato di nuovo in mezzo ad una strada dopo quattro anni al vertice e del tutto intenzionato a prendersi una pausa di riflessione.
Furono l’incontro con Ray Gillen, reduce a quell’epoca da una fugace parentesi con i Black Sabbath e, in particolare, la sua interessante proposta di dar vita ad un progetto “blues-metal” con Jake alla chitarra a rimettere entrambi in pista.
La miscela era potenzialmente esplosiva: Gillen era un cantante assolutamente fuori dal comune, una sorta di splendido ibrido in grado di alternare con facilità disarmante i toni suadenti del Coverdale degli anni ’70 con le urla più acute e selvagge del Plant della prima ora, l’ugola perfetta per intonare canzoni che avevano nella musica di gente come Led Zeppelin, Whitesnake e Bad Company le maggiori muse ispiratrici, mentre Lee con il suo stile ruvido e dalle evidenti reminescenze hendrixiane si qualificava come l’ideale compagno d’armi.
Il 1989 fu l’anno dell’esordio, Ray e Jake avevano reclutato Greg Chaisson al basso, Eric Singer alla batteria e l’esperto Paul O’ Neill alla consolle: “Badlands” suonava sporco e vissuto esattamente come nelle intenzioni dei due master mind e le canzoni erano perfettamente in equilibrio tra revival settantiano e aggiornamenti tipici dell’età dello street/glam.
“High Wire” apre col botto, Lee sforna sinuosi riff di scuola tipicamente Page/Sykes e Gillen impressiona fin dal principio con la sua timbrica squillante e sensuale: pare di sentire una versione ammodernata e ancora più elettrica dei migliori Led Zeppelin.
“Dreams In The Dark” riporta alla mente i primissimi Whitesnake con Gillen superbo camaleonte ora sulle tonalità del Coverdale dei tempi d’oro, accompagnato da chitarre dal suono fascinosamente rude e da un esaltante cambio di ritmo verso metà tempo.
Le tenui note di “Jade’s Song” fanno da preludio all’ottima “Winter’s Call” e “Dancing On The Edge” si rivela un devastante hard rock di strettissima parentela zeppeliniana, ma la traccia che vede Gillen esprimersi al meglio è la fiammeggiante “Streets Cry Freedom”, caratterizzata da vocals energiche ed avvolgenti e da un finale a tutta velocità in cui Lee può dare ulteriore prova delle proprie qualità tecniche ed espressive.
“Hard Driver” è un hard rock vivace e sfacciato, in netta contrapposizione con l’ammiccante “Rumblin’ Train” il cui ritmo sonnolento finisce per ipnotizzare l’ascoltatore in attesa dell’entrata in scena di un istrionico Ray Gillen e del delirante finale psycho-blues di Jake E. Lee, mentre nella successiva “Devil’s Stomp” i due leader si dimostrano più che mai mattatori grazie all’ennesima, straordinaria, prova vocale e ad un guitar work dinamico ed esuberante.
Le conclusive “Seasons”e “Ball And Chain” rappresentano l’apoteosi della sconfinata ammirazione dei Badlands per l’opera di Page & Co. : la prima, più che una cover, una grandiosa reinterpretazione della celebre “Ten Years Gone” di cui riprende e a tratti arricchisce in maniera sublime l’andamento marziale e i drammatici crescendo di intensità, la seconda un devoto omaggio al tipico zep sound degli albori.
A seguito di questo promettente debutto, il 1991 fu l’anno di “Voodoo Highway”: il discorso musicale si era sbilanciato ulteriormente verso l’hard blues, lasciando un po’ da parte le velleità metal oriented degli esordi, tuttavia, nonostante l’ottima qualità dei pezzi, l’album venne accolto piuttosto tiepidamente da un pubblico che probabilmente stava subendo anche un certo ricambio generazionale.
La breve avventura dei Badlands pareva ormai giunta al capolinea, lo scioglimento del gruppo si era perpetrato tra litigi e incomprensioni e l’annuncio della morte dello sfortunato Ray Gillen, stroncato dall’AIDS il primo dicembre del 1993, seppellì definitivamente le pur flebili possibilità di rivederli un giorno on stage.
Ci vollero ben sei anni prima che Lee e compagni tornassero a far parlare di sé e l’occasione fu la pubblicazione del terzo e ultimo album targato “Badlands”: in senso stretto si trattava di un disco interamente composto da canzoni inedite registrate prima della scomparsa di Gillen ma, in un contesto più ampio, “Dusk” rappresentava il giusto tributo alla memoria dell’amico scomparso e nel contempo il mirabile testamento artistico di una band ormai entrata di diritto nella leggenda.
Discutine sul forum nella sezione Hard Rock / AOR!
Tracklist
01. High Wire
02. Dreams In The Dark
03. Jade s’ Song
04. Winter’s Call
05. Dancing On The Edge
06. Streets Cry Freedom
07. Rumblin’ Train
08. Devil’s Stomp
09. Seasons
10. Ball And Chain
Line Up
Ray Gillen – Voce
Jake E. Lee – Chitarre
Greg Chaisson – Basso
Eric Singer – Batteria