Recensione: Balance

Di Roberto Ponte - 14 Febbraio 2012 - 0:00
Balance
Band: Van Halen
Etichetta:
Genere:
Anno: 1995
Nazione:
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75

A metà anni ’90 i Van Halen venivano da un periodo di successi ininterrotti di quasi due decadi, da album vendutissimi che avevano fruttato una serie continua di numeri uno nelle classifiche americane e da tour mondiali imponenti come testimoniato nel doppio “Live: Right Here, Right Now”.
Soprattutto l’ultimo album in studio, “F.U.C.K.”, aveva unito critica e pubblico, portando a un Grammy Award.

Cosa poter ancora realizzare a questo punto, in un periodo musicale dove grunge e alternative rock regnavano sovrani? “Balance” fu la risposta: un “bilancio” tra passato, presente e futuro, e allo stesso tempo un “equilibrio” tra le varie sfaccettature stilistiche presenti all’interno dell’album.
Nel disco, infatti, si respira un’atmosfera diversa rispetto a tutti i precedenti lavori, sicuramente più dark, soprattutto in alcuni punti: i testi sono più impegnati e nell’insieme, pare un’opera più matura e riflessiva. Già dall’immagine di copertina si avverte qualcosa di diverso e meno divertito del solito, con due bambini siamesi sopra ad un’altalena in un paesaggio desolato dai colori cupi. “Balance” è il decimo lavoro in studio della band e quarto e ultimo con Sammy Hagar, salvo una manciata di brani inediti successivi presenti in due “best of”: il tour di presentazione fece anche una data a Milano nel ’95, a oggi loro ultima esibizione in Italia.

L’album parte bene con la profetica “The Seventh Seal”, aperta da un coro di monaci. Come struttura il pezzo ricorda “Poundcake”, opening track di “F.U.C.K.”. Il suono di chitarra appare ancora più gonfio e potente. Il testo tratta di spiritualità, tema finora alieno a Sammy Hagar e soci.

A seguire “Can’t Stop Lovin’ You”, brano molto radiofonico con ritornello zuccheroso di facile presa, accompagnato da un videoclip azzeccato. “Don’t Tell Me (What Love Can Do)” è il primo singolo dell’album ed è il pezzo che non ci si sarebbe aspettati dai Van Halen. Parte con un riff cadenzato, ipnotico e minaccioso: filtrerà un po’ di luce solo nel ritornello. Il testo è cupo e non offre speranze. I due soli, melodici e per niente pirotecnici, come invece ci aveva sempre abituati Eddie Van Halen, dimostrano un’ulteriore svolta stilistica anche a livello degli strumenti, più morigerati ed al servizio della canzone.

Ora però basta con i pezzi seriosi e via a fare un giretto ad “Amsterdam”: Sammy Hagar ce la illustra con tutto il suo solito humor, ma non certo per quanto riguarda le sole bellezze artistiche…
Party song col ritornello molto azzeccato e di presa, fin dall’inizio mostra il perfetto amalgama tra chitarra, batteria e basso che fanno sembrare semplici e naturali anche ritmiche complesse.
L’atmosfera allegra continua con la sfrenata “Big Fat Money”, il pezzo più distante dallo spirito dell’album nel suo complesso. Da notare la particolarità dell’assolo di chitarra che suona in pulito con sonorità che quasi si avvicinano a qualcosa di jazzato, contro ritmiche distorte e tirate. “Strung Out” arriva come boccata di ossigeno e vede impegnato Eddie a pizzicare le corde interne di un pianoforte con oggetti di vario tipo. Breve e strumentale, “Strung Out” introduce alla delicata ballata pianistica “Not Enough”, davvero ben strutturata e riuscita. Il testo riflette sul tema dell’amore in maniera malinconica come in altre liriche del disco: a livello di rapporto di coppia in “Not Enough” ed in “Can’t Stop Lovin’You”, in termini più universali in “Don’t Tell Me (What Love Can Do)”.
Forse un riverbero della situazione sentimentale di Sammy Hagar, all’epoca da poco divorziato dalla moglie.

“Aftershock“ viene poi aperta da una cascata di armonici a tapping, classico trademark di Eddie Van Halen e si sviluppa come buon pezzo rock, con un riuscito primo solo melodico centrale. La collaudata sezione ritmica fa il resto egregiamente. “Doin’ Time“ è un buon strumentale di batteria e percussioni dagli ottimi suoni, firmato Alex Van Halen e fa da apertura a “Baluchiterium“, terzo ed ultimo strumentale dell’album dove chitarra, batteria e basso, non suonano mai fini a se stessi ma per il brano.
“Baluchiterium” è il più grande genere di mammifero di terra mai esistito: il pezzo, infatti, ha un andamento cadenzato ed imponente.
Nel testo della dolce amara “Take Me Back (Deja Vu) “ ognuno si potrebbe riconoscere. Chi non ha mai voluto poter tornare indietro, anche solo per un attimo, a un periodo della propria vita più bello e spensierato? La canzone rimane in bilico tra dolci trame acustiche e chitarre rock.
La riflessiva “Feelin’”, episodio lungo e strutturato, arriva in chiusura dell’album. Lenta e introspettiva nelle strofe, sfocia in un buon ritornello distorto. A conclusione, l’arpeggio iniziale ripreso chiude l’album in maniera abbastanza mesta e dark.

A fini di completezza citiamo la bonus track giapponese “Crossing Over“, originariamente scritta da Eddie nell’83. Il pezzo risulta anonimo e ripetitivo, e ci traghetta idealmente alle atmosfere del poco riuscito “III”.

“Balance” risulta generalmente sottovalutato, vuoi perché a ridosso dell’ottimo “F.U.C.K.”, vuoi  per le sonorità eterogenee e mature in un periodo in cui l’hard rock era calato di attenzione generale. Ad ogni modo l’album ha venduto diversi milioni di copie arrivando al numero uno negli Usa, come tutte le altre produzioni Van Hagar. Peccato non ci sia stata una continuazione.
Viene in effetti da chiedersi che direzione avrebbero preso gli album successivi alla luce di questo “Balance”: l’inedito di “Best Of Vol.1” e quelli di “Best Of Both Worlds” fanno propendere per la continuazione della strada intrapresa proprio con questo decimo capitolo.

 “Balance” rappresenta insomma un lavoro equilibrato e di buona fattura per una band che, potenzialmente, sembrava avere ancora tanto da dire con questa formazione.

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Tracklist:

01. The Seventh Seal
02. Can’t Stop Lovin’ You
03. Don’t Tell Me (What Love Can Do)
04. Amsterdam
05. Big Fat Money
06. Strung Out
07. Not Enough
08. Aftershock
09. Doin’ Time
10. Baluchitherium
11. Take Me Back (Deja Vu)
12. Feelin’

Line Up:

Sammy Hagar – Voce / Chitarra
Eddie Van Halen – Chitarra / Tastiere
Alex Van Halen – Batteria
Michale Anthony – Basso / Cori

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