Recensione: Banshee
La Banshee è una creatura del piccolo popolo, uno spirito femminile, legato ad una famiglia, dagli occhi arrossati dal pianto. Si aggira inquieta attorno a paludi e fiumi e si lascia andare alla disperazione, producendosi in strazianti lamenti, quando un membro del clan protetto decede o è prossimo alla morte (praticamente il corrispondente irlandese e scozzese della latina “Llorona”).
Nell’immagine di copertina di “Banshee”, ritorno sulle scene discografiche di Paul Sabu, con un album solista, dopo quasi venticinque anni da “Between the light”, risalente al 1998, l’essere perde ogni connotazione soprannaturale e si incarna in una procace dark lady, armata e dall’aria decisamente pericolosa, che si staglia sullo sfondo di un piovoso scenario metropolitano alla “Blade Runner”.
Sabu è un cantante entrato nella leggenda dell’AOR (anche per record di vendite), noto sia per le sue imprese soliste che come frontman degli Only Child, band con cui operò la svolta verso suoni decisamente più duri.
È stato, altresì, produttore di “artistucoli” da nulla come David Bowie, Alice Cooper, Madonna, Malice, Prince Tattoo Rodeo (solo per citarne alcuni, perché la lista è davvero molto lunga), che gli hanno riempito il carniere di un gran numero di dischi di oro e di platino, nonché compositore di colonne sonore per cinema e televisione.
Per il suo ritorno sulle scene da solista, l’artista americano ha optato per un contenuto fatto di hard rock melodico di medio livello, con una manciata di brani che spiccano, dallo stile più vicino a quello degli Only Child piuttosto che alla precedente produzione solista.
Nel nuovo “Banshee”, Sabu è coadiuvato dal solo Barry Sparks, bassista e chitarrista che ha militato negli Ufo, Michael Schenker Group e Dokken, nonché turnistan(Malmsteen, Ted Nugent), con il quale divide l’impegno in tutti gli strumenti.
I suoni sono generalmente caldi e coinvolgenti, impreziositi dall’arte di Sabu, che anziché subire gli attacchi del tempo presenta la miglior voce di sempre, dagli inediti toni cavernosi e rauchi che si alternano ad acuti sorprendenti, sebbene in alcune occasioni il cantato risulti decisamente sopra le righe.
L’album parte con il piede giusto grazie a un grandissimo pezzo quale “Blinded Me”. Oltre quattro minuti di melodiosa potenza, con funambolismi chitarristici e vocali, seguita dalla titletrack “Banshee” che, pur strizzando l’occhio alle atmosfere AOR anni ottanta, risulta meno incisiva.
Dalla mid tempo “Kandi”, di immediata assimilazione, si passa alla martellante “Love Don’t Shatter” che fa il paio con la seguente “Back Side of Water”, due brani di grande impatto, snocciolati uno dietro l’altro.
Prevale sul rock’n’roll sbarazzino di “Skin to Skin”, di reminiscenza Poison, la movimentata “Rock”, traccia di ispirazione sleaze.
Poco coinvolgente risulta invece “Turn the Radio On”, ma il riscatto è dietro l’angolo con “Dirty Money”, brano variegato che regala un’altra sferzata di energia grazie al chorus in stile ACDC.
Dopo la rarefatta “Midnight Road to Madness” la chiusura è affidata a una indiavolata “Rock the House” in cui la voce di Sabu domina su un riff dal sapore NWOBHM e divagazioni elettro prog.
Il platter ha sicuramente del buono: i brani di livello non mancano. Ma bisogna essere sinceri, la lunga attesa è stata solo in parte ricompensata.
“Banshee” è, insomma, un album con alti e bassi. Capace in alcune occasioni di entusiasmare, in altre di lasciare un po’ delusi o tutt’al più, indifferenti…