Recensione: Battle Ballads
Per capire appieno questo “Battle Ballads”, nono album da studio dei faroesi Týr, bisogna fare un salto indietro di quattro anni, quando i nostri diedero alle stampe il live “A Night at the Nordic House” insieme all’orchestra sinfonica delle isole Far Oer. L’idea di una commistione tra musica classica e il folk dei nostri mise radici profonde in Heri Joensen, che negli anni si sono sviluppate e hanno dato i loro frutti oggi, con un lavoro in cui composizioni volutamente semplici vengono ammantate dalla possanza orchestrale che ne impenna la carica enfatica. In quest’ottica, mai titolo fu più azzeccato di “Battle Ballads”, attraverso cui il corso attuale del gruppo trova perfetta collocazione: la vena progressive ieratica e introspettiva dei vichinghi, che comunque latitava da un po’ (seppur con meritevoli eccezioni) nell’economia dei nostri, in “Battle Ballads” svanisce del tutto. Al suo posto, come appunto suggerisce il titolo, un lavoro scritto con l’obiettivo di essere immediato e impattante, concepito per far risaltare le orchestrazioni e mescolarle all’heavy folk che ormai da tempo costituisce la materia prima del gruppo. Brani brevi (spesso sotto i quattro minuti, forse per farsi anche perdonare qualche lungaggine del precedente “Hel”) e propositivi, che sfruttano pochi temi ricorrenti intorno a cui avviluppare una componente orchestrale di stampo classico che dona loro un respiro cinematografico aggiungendo, di quando in quando, un’attitudine più danzereccia. Nonostante lo scarto di tono piuttosto evidente rispetto a capitoli storici della loro discografia, va detto che “Battle Ballads” contiene ancora, sotto la sua sbrilluccicante armatura power folk, alcuni degli elementi cardine della ricetta sonora dei faroesi. La struttura più semplice e la voglia piuttosto percepibile di puntare su immediatezza e coinvolgimento, infatti, non impediscono alle canzoni di mantenere spessore e, in alcuni casi, anche una piacevole ricercatezza, con un uso dei cori e delle melodie ancora tipicamente Týr. Basta ascoltare la prima traccia, “Hammered”, così titolata in onore del nuovo chitarrista, per capire cosa intendo: ritmo veloce e batteria in evidenza fanno pensare subito a un gruppo di tutt’altro genere, ma con l’entrata in scena dei cori si torna a percepire l’aria del nord. Il pezzo si mantiene arrembante e combattivo, velocizzando le tipiche melodie dei nostri ma senza scadere troppo nella pacchianeria, e condensa in poco meno di tre minuti e mezzo gran parte di ciò che incontreremo nel resto di “Battle Ballads”. Con “Unwandered Ways” i nostri mettono in mostra il volto più brioso della loro proposta, mescolando un fare caciarone a schegge melodiche trionfanti e sfruttando ancora una volta i cori per fungere da ponte tra passato e presente del gruppo, mentre “Dragons Never Die” carica troppo, a mio avviso, il suo tono danzereccio e frivolo, finendo per confezionare una specie di inno da taverna sotto steroidi, godibile ma un po’ sopra le righe. Si torna in carreggiata con “Row”, che dopo l’ingresso in scena minaccioso si distende su un tessuto folk scandito in cui l’indole goliardica viene stemperata da ampie dosi di pathos. Con la coppia di canzoni centrali si torna a respirare aria di casa: “Torkils Døtur” incede su ritmi nuovamente compassati ed un respiro malinconico, addolorato. La traccia, un inno alla perdita, si sviluppa come una ballata dai toni dimessi che guadagna enfasi pian piano, mentre con “Vælkomnir Føroyingar”, scartata da “Hel” per essere rifinita e sviluppata con calma, si torna propositivi. Anche qui si percepiscono maggiormente gli elementi tipici dei Týr seppur rielaborati alla luce dei canoni di “Battle Ballads” (vedasi le rapide accelerazioni che movimentano il fare sinuoso del pezzo). “Hangman” parte puntando sull’enfasi drammatica e maestosa, salvo poi alzare i giri del motore mescolando brevi galoppate e pathos solenne dando vita a un pezzo eterogeneo ma al tempo stesso concentrato, in cui echi del passato progressive tornano a farsi sentire in una veste più dinamica. Con la bellicosa “Axes”, un pezzo diretto che giocherella con una strofa scandita e rapide accelerazioni, i nostri tornano a esplorare gli aspetti più accostabili al power metal della loro proposta, mentre “Battle Ballad”, pervasa da un’attitudine simile, abbandona il fare troppo effimero del pezzo precedente per caricarsi di una maggiore drammaticità, soprattutto durante le parti più lente. Chiude l’album “Causa Latronum Normannorum”, in cui, seppur in un modo diverso dal solito, tornano a far capolino i vecchi Týr. Il pezzo rallenta sensibilmente e si sviluppa come una marcia lenta ed insistita, dalla melodia portante ripetitiva ed ipnotica che da vita a una sorta di solennità gregoriana in salsa nordica, chiudendo “Battle Ballads” con la giusta maestà.
Per quanto mi riguarda, e nonostante le mie preferenze vadano ai lavori più meditativi dei faroesi, “Battle Ballads” raggiunge il suo obiettivo: la semplificazione programmatica che ne permea il corso attuale non svilisce le doti compositive dei Týr, che danno vita a canzoni compatte e, pur nella loro maggiore convenzionalità, atmosfericamente riuscite, pronte a consolidare le schiere di fan con nuovi adepti anche a costo di perdere qualche purista nostalgico dei vecchi tempi.