Recensione: Battle Of Leningrad
Ricordate i Ring of Fire, band fondata da Mark Boals all’inizio del nuovo millennio, artefice di tre buoni album e un live-dvd in quel di Tokyo? Il gruppo ha passato un lungo periodo di latenza: Boals ha sostituito John West nei Royal Hunt, mentre Donati e MacAlpine sono stati impegnati, oltre ai soliti mille impegni, con Derek Sherinian nei Planet X. Nel 2009 i tre artisti si sono rincontrati e hanno dato vita alla prog. metal Seven The Hardway. I Ring of Fire, tuttavia, non vengono messi da parte dal cantante americano e rinascono dalle loro ceneri: il nucleo “Boals-Kuprij-MacAlpine”, infatti, si ricompone e sembra godere ancora di una qualche vitalità e alchimia vincenti.
Dopo quasi dieci anni dal precedente “Lapse of Reality” (che non vedeva Kuprij in line-up) possiamo, dunque, goderci la nuova fatica del gruppo statunitense, che abbandona le tematiche fantasy, per comporre un concept-album di matrice storica. La vicenda narrata, tra abbellimenti barocchi e tirate heavy, è la battaglia di Leningrado (sc. San Pietroburgo), la “Quarta Roma”, città dalle caratteristiche torri rostrate, fondata dallo Zar Pietro il Grande all’inizio del diciottesimo secolo, che fu assediata durante la seconda guerra mondiale dalle truppe tedesche per ben ventinove mesi. Le vittime, tra militari e civili, superarono il milione e l’accerchiamento terminò il diciotto gennaio del 1945: oggi la metropoli è insignita del titolo di “Città eroina” come Mosca, Stalingrado (sc. Volgograd) e altre ancora. I Ring of Fire non sono i primi a trattare l’argomento: i nostri connazionali Dark Lunacy vi si cimentarono in “The Diarist”, concept del 2006, ma con toni decisamente più pesanti.
Fatta questa premessa il full-length si presenta davvero appetibile e da seguire testi alla mano. Notevole anche la copertina, che ritrae la maestosa cupola della Cattedrale di Sant’Isacco, da cui procede una fila di carri armati su uno stuolo sterminato di scheletri, nuovo Golgota in quel di Russia.
L’opener “Mother Russia” inizia con un Kuprij tra il solenne e il marziale al pianoforte, cui subentrano colpi di rullante quasi militari. Si aggiungono, poi, MacAlpine e Boals creando un’atmosfera mesta e sognante. Il concept sembra prevalere sulla musica fine a se stessa: il guitarwork non eccede per virtuosismi barocchi e si concede anche un breve assolo di chitarra iperdilatato. Il ritornello non è dei migliori, forse per un pezzo d’aperura si poteva fare meglio, ma lamentarsene sarebbe ingiusto.
“They’re Calling Your Name” suona fin da subito più malmsteeniana, con doppia cassa inflazionata e armonie minori tipiche del metal barocco (Tolkki svolge bene il suo compitino al basso). Kuprij sfodera l’ennesimo synth inedito, dimostrando di voler sempre sperimentare, ma non toglie la scena a MacAlpine. Bella la parte cadenzata verso la metà del brano e certe sonorità vicine ai Royal Hunt. Nel finale una breve coda di pianoforte e la classica cadenza di rito.
L’incipit di “Empire” è sicuramente d’impatto, tra l’evocativo e il supponente. Sonorità vicine ai dischi solisti di Kuprij (lo staccato di pianoforte è un suo classico) e agli Artension, e un drumwork articolato e scoppiettante, con qualche finezza che non dispiace affatto. Resta l’atmosfera gelidamente mesta del concept e le backing vocals fanno la parte di un coro da tragedia greca. Brano forse troppo ripetitivo, ma godibile nel complesso.
“Land of Frozen Tears” brilla di alcuni arrangiamenti acustici e ben rappresenta il gelo cristallino che accompagnò feralmente i soldati schierati sul fronte russo. MacAlpine sembra rifarsi al Tolkki più ispirato: poca tecnica e grande sentimento. Tra i brani migliori del platter. Le note di pianoforte di Kuprij calzano a pennello e sembrano gocce di ghiaccio sulle rive della Neva. Alcuni armonici finali chiudono una ballad memorabile.
“Firewind” ha una intro articolata per successioni: breve parentesi “spaziale”, poi una veloce cadenza barocca, infine, un refrain magnetico, che vi resterà in mente per giorni. Ancora una volta convince l’accoppiata tra chitarra elettrica e i registri bassi di pianoforte. Ottimo il bridge arioso, sempre intriso di tristezza, con sonorità hard-rockeggianti. Ragguardevole anche la parentesi in legato di MacAlpine su tappeto armonico di Kuprij, ma subito torna il ritornello inesorabile e Boals tenta un acuto con esiti incerti. Ultimi trenta secondi cadenzati da una batteria infuocata.
“Where Angels Play” è una killer-song dalle venature power e thrash. Ascendenze stratovariusiane e sentori di Symphony X. Boals canta en passant «Give us our daily bread», Kuprij ricrea la temperie estrema della guerra con armonie oscure. Lo stacco alla metà del brano può ricordare i Nightwish, forse i primi Sonata Arctica. Scale a mille (come per gli Helloween che furono), «If I only had wings I’d fly so far away»: da brivido.
La title-track procede con marezzature bluesy, cromatismi tenebrosi quasi thrash. «The army still surrounds, […] every day we rise again in freezing cold and endless nights, we will survive». Note epiche accompagnano un refrain smagato, che vuole raffigurare la spossatezza dei soldati dopo mesi di assedio. Bending gustosi e un assolo petrucciano impreziosiscono la canzone.
“No way out” è aperta da rintocchi di campana, poi si sviluppa come una traccia power metal canonica. Un Boals un filo più grintoso e determinato proclama: «There’s no doubt, there’s no way out». Più che un refrain, una sentenza d’estrema sconsolatezza!
“Our World” è la seconda ballad del platter, dalle tinte vellutate e flebili (Kuprij è sempre d’applausi sui tasti d’avorio). Come per “Land of Frozen Tears” il brano inizia in pianissimo per poi esplodere in un ritornello corale e memorabile: «Hold on, ’till everything’s gone». Boals sembra l’incarnazione di Bob Catley, momenti davvero emozionanti.
“Rain” chiude l’album nel migliore dei modi. Kuprij azzarda un synth alla Pär Lindh, mentre Boals canta un liberatorio: «Raising out of the ashes on the wings of fire!», sorretto da una cavalcata heavy con delay maestosi. Alcune, le ultime, note di pianoforte chiudono circolarmente il disco su tonalità tra il mesto e il luttuoso. Giusto finale per un album che racconta una pagina di storia tragica e gloriosa.
Complessivamente “Battle of Leningrad” è un album trascinante, con un concept degno di nota, interpretato magistralmente da musicisti dall’indubbia perizia tecnica. MacAlpine e Kuprij limitano i propri virtuosismi, per non prevaricare sui toni drammatici della vicenda: il tastierista d’origini ucraine, insomma, non fa la parte del leone come negli Artension, ma intesse armonie toccanti e sempre calzanti ai testi.
Boals canta su registri un poco più bassi rispetto al passato e sciorina anche qualche acuto: non brilla come ai tempi delle collaborazioni con Malmsteen, ma si dimostra interprete più maturo, dopo i due album registrati con i Royal Hunt. Risulta, altresì, un buon narratore all’interno dalla cornice del concept, e convince di più rispetto al ruolo di protagonista affidatogli nella rock-opera Genius di Daniele Liverani.
Per quanto riguarda la sezione ritmica, l’assenza di Donati non pesa più di tanto: Jami Huovinen alle pelli (batterista finnico già attivo con i neoclassici Sentiment) e un inedito Tolkki al basso, suonano in modo inappuntabile, ma non regalano molte emozioni. D’altra parte questa è la norma per il tipo di metal proposto da gruppi come i Ring of Fire o gli Artlantica di John West: prendere o lasciare.
Tra i difetti macroscopici del platter c’è la produzione delle chitarre, spesso troppo compressa e poco corposa. In secondo luogo la forma canzone è pressoché identica per ognuno dei dieci brani proposti: intro atmosferico, ritornelli corali, brevi assoli e outro cadenzato. Chi cerca cambi di tempo repentini e poliritmi complessi ha sbagliato band!
I Ring of Fire sono tornati, più incendiari che mai, e “Battle of Leningrad”, a detta di chi scrive, è il migliore album mai composto dal supergruppo, insieme al disco solista di Boals del 2000. Un bel regalo da concedersi con la giusta indulgenza in questi giorni di freddo rigido e giornate bigie.
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