Recensione: Battles
Coerenza, (senso di) appartenenza e anticommercialità: in modo spiccio e quasi degno d’un Bignami d’altri tempi, bastano forse queste tre parole per stabilire i concetti cardine alla base del Metallaresimo.
Considerando che gli In Flames hanno infranto questi tre tabù uno per uno e senza alcuno scrupolo di sorta, modificando il proprio sound dal death metal – prima classico e poi melodico – delle origini fino al “modern swedish *core” decisamente più catchy degli ormai ultimi dieci anni, l’odio riversato loro addosso da una larghissima parte dei loro fan storici non stupisce neanche un po’.
Se appartenete alla fazione di coloro che sapevano già che “Battles” sarebbe stato «l’ennesimo disco deludente da parte di una band finita da più di dieci anni» ancor prima di averlo ascoltato più volte nella sua interezza, è con tutta probabilità inutile che continuiate a leggere: gli In Flames, infatti, non fanno più death metal (e se non avete vissuto sulla Luna negli ultimi dieci anni, la cosa non dovrebbe risultare nuova). La novità, al contrario, risiede nel fatto che con questo album il quartetto di Göteborg si va a collocare parzialmente al di fuori dell’Universo Metal, proponendo una sorta di alternative rock/metal dalle comunque evidenti venature InFiammate, ben distinguibili nei riff, nelle atmosfere e nell’inconfondibile voce dell’amatodiato Anders Fridèn, sempre più mastermind di una band che i più scettici – non del tutto a torto – hanno preso da un pezzo a chiamare con il nomignolo In Fridèn.
Venendo ai contenuti, pur essendo come anticipato al cospetto dell’album più leggero mai prodotto dagli scandinavi, occorre dire che tra le dodici canzoni in scaletta c’è modo di trovare più d’uno spunto d’interesse, seppur globalmente il risultato appaia meno fresco e più ammanierato di quanto ascoltato su “Siren Charms”.
“Drained” e “The End” partono forte e riescono a portare per certi versi avanti quanto di buono sentito sul predecessore ma già da “Like Sand” comincia a farsi strada la sensazione che qualcosa non stia andando per il verso giusto. La canzone in sé – fatte tutte le dovute premesse in merito al genere e alla direzione stilistica intrapresa dagli In Fridèn – non è tutto sommato male ma l’arrangiamento elettronico stona in maniera vistosa e un discorso analago può essere applicato anche alla successiva “The Truth”, altro brano discreto/buono, cui né gli orpelli elettronici né i cori di bambini paiono donare lo slancio voluto.
Quanto affermato in relazione alle prime quattro tracce in scaletta risulta applicabile anche al resto della tracklist, all’interno della quale si alternano alcuni momenti più riusciti ad altri decisamente rivedibili.
Nella prima famiglia è possibile collocare la ritmata “In My Room” e la successiva “Before I Fall”, due tracce nelle quali Friden dimostra di saper ancora ruggire, la bella “Underneath My Skin” con la sua linea vocale azzeccata e la più cupa “Wallflower”, forse l’unica canzone nella quale le rifiniture elettroniche abbiano davvero ragion d’essere. Nel secondo gruppo vanno purtroppo a finire la sconnessa “Through My Eyes”, indecisa tra spunti swedish death, iniezioni *core e virate elettroniche, e l’evitabile title track, nei cui tre minuti scarsi non è possibile non notare l’assolo di chitarra, davvero brutto e fuori contesto.
Nel limbo, infine, l’azzardato lentone “Here Until Forever” – non orribile ma probabilmente meritevole di un’altra voce e di arrangiamenti più curati rispetto a quanto effettivamente messo in campo – e la conclusiva “Save Me”, sorta di orecchiabile semiballad a cavallo tra emo/core ed alternative rock certamente easy listening ma nemmeno questa volta completamente da cestinare.
Rispetto a “Siren Charms”, “Battles” risulta essere un album mediaticamente più coraggioso (sì, perché al di là di tutto ci vuole onestamente del coraggio per proporre canzoni come “Here Until Forever” e “Save Me” sotto al monicker In Flames nell’era del web e dei social network, NdR) ma nel contempo meno riuscito, perché laddove il suo pur criticatissimo predecessore traeva la propria forza dalla freschezza irriverente e da un certo qual “sperimentalismo” (all’interno della gamma espressiva della band, ovviamente) l’ultimo parto degli svedesi risulta manchevole della medesima ispirazione e talora appesantito da soluzioni d’arrangiamento un po’ artificiose oltre che da qualche impennata d’ego di troppo da parte di Fridèn.
Stefano Burini