Recensione: Beautiful Nightmare

Di Fabio Vellata - 26 Luglio 2021 - 16:09
Beautiful Nightmare
Etichetta: Red Cat Records
Genere: Shred 
Anno: 2021
Nazione:
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71

Secondo album solista per Albert Marshall, abile interprete delle sei corde che a dispetto di un nome di richiamo esterofilo denota evidenti origine italiche.

Autodidatta poi specializzatosi nella scuola shreddaiola cara ai titanici Paul Gilbert, George Lynch, Yngwie Malmsteen, Steve Vai, John Petrucci e compagnia schitarrante, Marshall ha in realtà affinato le proprie velleità da guitar hero cimentandosi dapprima con qualche buona band di classico heavy rock (Altair e Ardityon), per poi approdare agli intramontabili prodotti dedicati agli strenui appassionati dello strumento.

Beautiful Nightmare” è essenzialmente un album che ripercorre la strada più volte tracciata un paio (o forse tre) decadi fa con i celebri album editi da Relativity Records, patrimonio inestimabile per i tanti amanti della chitarra elettrica, fossero essi stessi musicisti o semplici appassionati.
Un disco che come già il precedente esordio “Speakeasy” si mantiene in stretto contatto con il pianeta dei guitar-hero, offrendo un panorama totalmente strumentale in cui apprezzare per lo più grandi doti tecniche ed una verve compositiva di discreto fascino.

Ovvio ed inevitabile come, prodotti devoti ad una radice stilistica tanto ortodossa e rigorosa come quella del puro svolazzo delle sei corde, possano apparire di scarsa quanto nulla attrattiva agli occhi di chi non si reputi ben “addentro” al genere.
Nemmeno “Beautiful Nightimare” sfugge pertanto ad una logica scardinata nel tempo da rari ed eccellentissimi casi, andando a centrare nel dettaglio tutti i pregi ed i difetti tipici di un settore comunque sempre ben nutrito come quello degli shredders.

Partendo dal punto di vista di chi non possiede particolari nozioni tecniche ma apprezza da sempre i contorni sonori, mitizzati e irrinunciabili, della chitarra elettrica, va comunque sottolineato come Marshall tenti, ove possibile, di rendere il songwriting quanto più vario e movimentato. Dal rock moderno, all’heavy tradizionale, passando per Neoclassico e sperimentazione c’è un po’ di tutto.
La rassegna delle grandi influenze – Steve Vai e Malmsteen in testa – è poi molto chiara ed esplicita, resa quasi inequivocabile in brani quali “Angry Monkey“, “Little Rainbow” e “Black Rooster“, summa probabilmente esaustiva dell’arte del chitarrista tricolore.

Piuttosto ben prodotto, l’album perde tuttavia d’intensità con il trascorrere del minutaggio, portando ad un inevitabile calo d’attenzione verso le battute conclusive di un viaggio gradevole ma – almeno per le orecchie di un semplice ascoltatore – ancora perfettibile dal punto di vista meramente comunicativo ed emozionale.

C’è un evidente spessore percepibile anche a chi poco mastica di scale frigie, arpeggi armonizzati e riverberi shimmer. Manca ancora qualcosa in termini di pura e semplice accessibilità.
Una chiave che, una volta scoperta definitivamente, potrebbe schiudere a Marshall prospettive ancora più ambiziose e gratificanti.

 

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