Recensione: Becoming Human
La carriera solista di Simon Collins per certi versi è arrivata a un punto di avvenuta consacrazione. Attivo da inizio millennio con i primi demo, il figlio d’arte ha proposto pochi anni fa l’ottimo debut dei Sound of contact, Dimensionaut, e oggi pubblica un disco per Frontiers che non lascerà indifferenti gli ascoltatori più esigenti in fatto di sound design. Le dodici tracce di Becoming Human propongono infatti musica dall’indubbia maturità, che miscela senza soluzione di continuità rock, pop, prog, elettronica e qualche rimando industrial. Niente di veramente innovativo, sia chiaro, ma l’ascolto risulta piacevole e i pezzi proposti sono facilmente memorizzabili e torniti al punto giusto.
Superato l’intro canonico, la title-track inizia a scorrere con i suoi arrangiamenti in loop, raffinati e arricchiti dalla voce riconoscibile e magnetica di Collins. Niente virtuosismi, un refrain melodico con acuti ben piazzati, poco basta per rendere memorabile questo brano che suona moderno e fresco a ogni ascolto. Tanto pop ed elettronica anche in “The Universe Inside Of Me” e iniziamo a capire che i testi proposti non sono affatto fini a se stessi, semmai postmoderni (del resto l’artwork sfoggia le Sephiroth cabalistiche dell’albero della vita?). Da segnalare la coda del brano con scratch vari ed effetti che avvicina il sound proposto a quello dei cugini Frost.
Il paragone con John Mitchell torna a riproporsi prepotente in “Man Made Man”, song delle più spigolose in scaletta, che dopo 4 minuti lascia spazio alle sonorità più distese e catchy di “This Is The Time”, hit che con alcuni correttivi potrebbe comparire anche in un full length dei Porcupine Tree o dei Marillion. Ha un quid di accattivante anche “Thoughts Become Matter”, specie il ritornello sci-fi e il drumwork che a metà minutaggio dà il giusto sprint a “I Will Be Waiting”. Tutto funziona a dovere, si ha voglia di continuare l’ascolto e già questo denota la qualità della musica proposta da Simon Collins, per niente derivativa, me nemmeno cervellotica.
Commerciale senza essere stucchevole “No Love”, “Living In Silence” risulta inizialmente più ostica da assimilare, ma poi conquista con il suo arrangiamento intelligente e cadenzato dove regna indiscussa l’elettronica. Gli ultimi brani non concedono spazio alle critiche. “40 years” e “So Real” presentano testi ispirati e linee vocali vincenti, ascoltarle in sequenza è un vero refrigerio. Le danze si chiudono con i nove minuti di “Dead Ends”, composizione più lunga dell’album, che presenta una prima parte in lento crescendo e poi momenti di catarsi visionaria. Di sicuro non è un pezzo anonimo e privo di ambizione, poteva essere collocato solo in chiusura di scaletta e Collins osa qualcosa in più senza commettere scivoloni imperdonabili.
Finito l’ascolto di Becoming Human si ha voglia di ricominciare da capo, la dozzina di canzoni contenute sembrano poche e vorremmo continuare il viaggio sonoro guidati dalla voce di Collins, che – ebbene sì, nessuno scandalo, sia chiaro – ricorda a tratti quella del padre Phil. Se il musicista classe 1976 saprà continuare così la propria carriera e arrivare al quinto disco solista in modo altrettanto ispirato l’uscita dall’ombra lunga dei meriti paterni potrebbe essere dietro l’angolo finalmente.