Recensione: Beelzefuzz
Hanno il dono della sintesi ed il pregio di essere piuttosto concisi nell’esprimersi i Beelzefuzz e, data la proposta musicale, verrebbe da dire “meno male”.
Il loro, infatti, è un genere che, qualora spinto su minutaggi troppo elevati, potrebbe condurre a conseguenze imprevedibili, quali perdita di conoscenza, allucinazioni “stonate” e visioni irreali. Meglio quindi, dimostrare di saperci fare, mantenendosi però entro i limiti di una fruibilità leggera e non troppo gravata da prolissità soporifere.
Come facilissimo da intuire dall’indicativo preambolo, lo stile offerto da questo interessante terzetto statunitense è da inserire a pieno titolo all’interno del filone stoner-doom, di quello tonante, ribassato nei suoni, sulfureo e plumbeo.
Uno stoner che, tuttavia, si mantiene a debita distanza dalle tradizionali ambientazioni infuocate made in Kyuss, alimentate da immagini desertiche di pietraie assolate e distorsioni visive da effetto morgana.
La scelta dei Beelzefuzz in realtà, predilige un taglio maggiormente europeista della materia, accorpando agli immancabili Black Sabbath, echi di Pentagram, Graveyard e Earthride (e per il versante più doomy, infiliamoci tranquillamente anche i seminali Cathedral), per raggiungere un risultato che, spesso, un po’ ricorda i buoni esiti maturati dai sottovalutatissimi svedesi Mustasch.
Musica di buon livello dunque, ammantata da una costante coltre di caligine che cela un’ottima sezione ritmica ma, ancora di più, fornisce le atmosfere su cui si staglia il talento del mainman Dana Ortt, davvero notevole nel doppio ruolo di chitarrista/cantante. Proprio la voce squillante e declamatoria, mescolata al rifferama circolare ed ipnotico della chitarra, costituiscono l’arma vincente di questo interessante debut album, talvolta disperso su tonalità sepolcrali e narcotizzanti (traccia numero cinque: “Hypnotize”. Serve una descrizione del contenuto?), in altri casi più dinamico e performante (l’iniziale “Reborn”, la bellissima “All THe Feeling Returns” e la conclusiva “Light That Blinds”), in altri ancora vicino a danze sabbatiche dal sentore luciferino (“Lonely Creatures”).
Senza perdersi troppo in lungaggini e dispersioni eccessive, il trio americano colleziona nell’arco di soli trentacinque minuti un nucleo di brani dall’appeal notevole che, per gli amanti dello stoner doomeggiante, potrebbero costituire un piatto davvero prelibato ed appetitoso.
Merito aggiuntivo, insieme ad una buona produzione dei suoni, è quello inoltre di centrare almeno due brani assolutamente superiori: “Lotus Jam”, eccellente ed allucinatissimo Hard settantiano che, cogliendo una buona melodia, mette insieme Black Label Society e Deep Purple e “Lunar Blanco”, terrificante opera doom che pare essere uscita dalle fantasie di Tony Iommi. Tuoni, fulmini e saette, sprofondati in un cielo nero come la fuliggine…
I Beelzefuzz odorano di underground e le loro composizioni danno la netta impressione di fuoriuscire dalla penna di musicisti parecchio abili, spinti al versante oscuro della melodia da una sincera passione per il genere.
Con il pregio, tutt’altro che trascurabile, di non menarla troppo per le lunghe e di risultare – in alcuni casi – persino immediati e diretti.
Un piccolo sunto di tenebroso stoner doom, spuntato tra gli anfratti più sotterranei dell’universo metal a stelle e strisce che non ha, insomma, nulla che possa prevedere derive commerciali, idee di successo allargato o popolarità diffusa.
Ma forse, proprio per tale motivo, dannatamente affascinante e piacevole da scoprire…
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