Recensione: Belfry
Quando capisci che il tempo si è fermato nel lago di Resia, attorno al campanile sommerso comprendi quell’impagabile momento della volontà della scoperta, in cerca di luoghi che hanno intrinsechi ancora il sapore di un’era lontana. Alla ricerca di spazi distanti dalla vita quotidiana, lontani dal vissuto standardizzato che portano per caso o per volontà a trovare l’impensabile e l’irrangiungibile. Concettualmente e materialmente. Come quel campanile che sino a quando non lo si ha di fronte risulta impensabile, la musica dei Messa porta ad avvicinarsi a luoghi del proprio spirito più silenziosi e introspettivi, dove solo la musica vive e le parole fugacemente si allontanano eclissate. “Belfry” è il rintocco dello spirito che dimora nell’oscurità, quell’ infausto divenire che avvolge e consuma per liberarti dai pesi della necessaria coesistenza con il prossimo. Non solo doom all’interno di questo primo disco dei nostri che come un buco nero, inghiotte tempo e spazio per renderti parte della morte col ticchettio dell’orologio della vita.
Dieci canzoni che trasudano pece e utopia, Il cantato di Sara quale rituale per accogliere le strutture dell’archetipo del sopravvivere tramite la dilatazione degli spazi compositivi assissini di speranze. Questo sostanzialmente è tutto ciò che alla base di “Belfry” porta a sentirsi meglio, a chiudere gli occhi ed avvicinarsi ad una richiesta di pace interiore. Complessivamente è riscontrabile una verve settantina a-là Pentagram che si intreccia col funeral degli ultimi Bell Witch, sfiorando le monocromatiche intenzioni dei Jex-Thoth; sin dai primi vagiti “Alba” ci introduce ad un mondo parallelo, una strumentale dal gusto malinconico che è la sintesi del togliere per addizione. Non c’è da temere le musiche arrivano poco dopo, già con la successiva “Babalon” le ritmiche iniziano a farsi più cadenzate, come se i Black Sabbath cerchino nuovi stimoli compositivi dopo secoli e secoli. Sminuire questo grande lavoro attraverso comparazioni di qualsiasi genere è alquanto riduttivo, ma la voglia di prendere le radici del passato e tramutarle in qualcosa di personale è la forza alla base di questo ottimo platter. L’apice dell’intensità viene raggiunto attraverso la splendida doppietta formata da “Hour of the Wolf” e “Blood”, nei complessivi 18 minuti ci si sente come anime dannate trasportate da Caronte lungo lo stige, in cerca del bagliore che inseguiamo dall’inizio del disco per poterci salvare. Peccato che non c’è luce, un buio che inghiotte e fagocita può solo farti perdere nei mastodontici meandri della tua mente. Come se queste sonorità fossero già presenti entro la nostra psiche ed avessero solo bisogno di essere liberate dalla gabbia interiore. La classica verve settantiana, il suono distorto e quella sfumatura di drone sulle strumentali “Fårö”, “Tomba” e “Bell Tower” ci ricordano quanto sia multisfaccettato il mondo dei Messa. Tutto in niente e il niente nel vuoto più profondo. Il gioco tra gli opposti che lega quest’album al moderno, decontestualizzato dal panorama globale, porta alla luce la vera forza della band. Esprimersi attraverso un dettagliato intreccio di sonorità che evocano prima questo poi quello poi semplicemente loro stessi con la forza dell’ignaro. Con molta probabilità è questo pregio e il difetto, quale arma a doppio taglio, di “Belfry”, un album ancora leggermente acerbo, ma con una notevole spinta verso il futuro. Anche le conclusive “Outermost”, con il suo decadente andamento solitario e l’acustica “Confess” portano in seno quella tremenda sensazione di vuoto, una chiusura leggera e soffocante come da copione. Si sta bene tra queste note, quel incosapevole volersi male che ci rende tutti più vicini nel perdere perdendosi consapevolmente.
Succede a volte che una cover diametralmente opposta al risultato finale, diventi la porta d’ingresso a mondi inesplorati, solitari e inaccessibili; quando accade, c’è una pace interiore che risulta sin troppo difficile da descrivere. Come detto poco sopra c’è ancora del potenziale inesplorato dei Messa, ma se questa è la prima sfida sulla lunga distanza, non possiamo fare altro che applaudirli per il lavoro svolto attendendo lo step ulteriore. Come riscontrato negli ultimi anni, non a tutti è congeniale il cantato femminile, in questo caso specifico proprio questo aspetto risulta l’arma vincente per portarsi dietro un pò di malinconia che non dovrebbe mai mancare in ognuno di noi, per apprezzare con occhi lucidi ciò che si possiede, spesso immeritatamente.