Recensione: Belus

Di Alessandro Cuoghi - 5 Maggio 2010 - 0:00
Belus
Band: Burzum
Etichetta:
Genere:
Anno: 2010
Nazione:
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Il conte è tornato.

Dopo quasi 17 anni di carcere, a distanza di 14 anni dall’ultimo album prettamente Metal, quel Filosofem del 1996, giustamente considerato come una delle pietre miliari del genere, è tornato l’uomo che, nel bene e nel male, ha fatto più parlare di sè nella storia del Metal estremo.

Kristian Larssøn Vikernes, aka Varg Vikernes, dopo aver pagato per il proprio reato, si ritrova ora trentanovenne, invecchiato nell’aspetto ma maturato nell’animo di uomo ed artista.
Con la riconquista della libertà e ormai privo delle catene fisiche e morali della reclusione, egli ha ripreso possesso della propria arte, incanalandola a proprio piacimento, con l’obiettivo dichiarato di consegnare alla storia un nuovo capolavoro che possa essere ricordato ed ascoltato per gli anni a venire.

Le affermazioni dell’artista, infatti, non lasciano spazio a dubbi:

“My ambition with “Belus” is to create something I – and hopefully others too – can listen to for years and years to come without ever growing tired of it, and at the same time to share with my audience the experience of getting to know Belus, as he might have been perceived by the ancient Europeans”.

L’attesa per l’evento, ed il timore per una possibile delusione, si sono fatti sentire, ma già dai primi ascolti, “Belus” – composto in gran parte da vecchie idee accatastate nella memoria di Varg Vikernes –  dimostra di essere un concept album ricco di sfaccettature e destinato a far parlare di sé per molto tempo. Si rivela, infatti, dichiaratamente Metal, coscienziosamente maturo e dannatamente Burzum. Strizza l’occhio ad un’evoluzione sonora dislocata da ogni trend musicale ed è pregno di passione per la propria terra, di classe e, perché no, di savoir faire musicale. Perché, diciamocela tutta, il vecchio Varg sa dove andare a parare per colpire il proprio seguito.

Belus (Il Dio Bianco)

Belus narra la storia, contenuta nell’Edda, dell’omonima divinità, la cui morte dà inizio ad una serie di eventi che porteranno all’esplosione del Ragnarok, la guerra degli dei.
Sebbene il titolo originale del disco fosse per l’appunto “Den Hvite Guden” (Il Dio Bianco), tale appellativo è stato cambiato per evitare accuse di razzismo, nonostante fosse l’attribuzione data in epoca pagana a Belus (o Baldr), figlio dei signori di Asgard Odino e Frigg, dio del sole e dell’Estate, parimenti ad Apollo della comunità ellenistica. I nomi delle divinità utilizzati da Varg Vikernes nel disco sono espressi in forma arcaica e non convenzionale, in modo che l’ascoltatore possa percepire il racconto allo stesso modo delle antiche comunità nord-europee.

L’album è strutturato in maniera impeccabile: liriche (interamente in norvegese) e musica, si fondono in modo alchemico al fine di creare atmosfere talora soffuse, talora sulfuree e claustrofobiche. L’incedere ipnotico delle tracce conferma la piena consapevolezza delle proprie possibilità da parte dell’artista, che non si risparmia alcune soluzioni, tra cui l’uso delle clean vocals, decisamente inusuali per il genere proposto.
Lo spessore poetico del disco richiede un’analisi track by track approfondita, grazie alla quale sia possibile destreggiarsi fra i meandri di un lavoro di cotanto spessore.

Incipit della narrazione

Il racconto ha inizio quando Belus, il più bello e nobile fra gli Æsir (gli dei del cielo), ha un sogno che gli preannuncia la propria morte prematura. Questi, afflitto ed atterrito dalla premonizione, si reca dai genitori e scopre che anche la madre Frigg ha avuto il medesimo, terribile incubo.
Il padre Odino, temendo per la sorte del figlio, si reca dall’anziana sacerdotessa Wala, che gli conferma la fondattezza delle proprie paure, asserendo inoltre che Belus non morirà in battaglia e che per questo il suo corpo sarà destinato agli inferi (Hel) e non al Valhalla, riservato ai soli guerrieri.
Frigg, alla disperata ricerca di una soluzione, chiede ad ogni elemento, oggetto ed essere vivente presente in cielo ed in terra di assicurare, tramite un giuramento sacro, di non nuocere in alcun modo a Belus. L’unica eccezione, è data dalla pianta del vischio, ritenuta dalla madre talmente giovane ed innocua da non richiedere tale patto.
Reso immune da ogni pericolo, Belus diventa un’attrazione per gli altri Æsir, che ogni giorno si ritrovano in cerchio e tentano di colpirlo, senza successo, con ogni sorta di oggetto.
Egli partecipa con accondiscendenza al diletto delle divinità, conquistandosi la loro stima ed il loro affetto.
Tale situazione però, risulta spiacevole all’astuto dio Leuke (universalmente conosciuto come Loki), che decide di ordire un piano che ponga fine alla vita ed alla fama di Belus.
Recatosi da Frigg sotto le sembianze di donna mortale, viene a conoscenza che l’unico pericolo per il figlio è costituito da una piccola pianta, che cresce fuori dalla porte del Valhalla, per l’appunto l’innocuo vischio.

L’opera di Burzum ha inizio nei passi che seguono tale punto della storia.

1) Leukes Renkespill (L’intrigo Di Leuke)

Il brano, risultante come una semplice intro di breve durata, guadagna valore se riferito al significato ad esso attribuito dal compositore.
Leuke, dopo aver scoperto il punto debole di Belus, si reca nel luogo dove cresce il vischio, al fine di prelevarne un ramo.

2) Belus Dod (La Morte Di Belus)

Rifacendosi in chiave distorta alla melodia tastieristica di “Dauði Baldrs“, brano dell’omonimo disco dark ambient del 1997 dello stesso Burzum, Varg racconta come prenda forma il piano ordito dal malvagio Leuke nei confronti di Belus, che egli chiama “lo spirito della quercia”.
L’incedere angosciante e claustrofobico dei riff disegna i contorni di una situazione incentrata su Leuke, che preleva un ramo dalla pianta del vischio e ne ricava un’arma dalla punta acuminata.
Spicca sin da subito il diverso utilizzo delle vocals rispetto al passato, in questo caso divenute più basse e riconducibili ad uno screming di stampo canonico, probabilmente a causa dell’età e dell’inattività protratta nel tempo.
Il cantato rimane tuttavia personale, pregevole e perfettamente amalgamato col suono frusciante delle chitarre, andando a corredare in modo magistrale l’aura funerea del brano e riuscendo nell’intento di aumentarne la carica emotiva.
Per quanto riguarda la storia: Leuke, dopo aver creato un dardo dal ramo di vischio, lo consegna a Höðr, fratello di Belus, che non prende parte al divertimento degli altri dei in quanto non vedente e quindi incapace di individuare il bersaglio. Il furbo Leuke, però, si offre di guidare la mano di Höðr per scagliare il dardo verso il fratello, in modo che anch’esso si possa divertire.
Belus, colpito dall’unico materiale in grado di ferirlo, cade a terra trapassato mortalmente, gettando nello sconforto sia gli dei che le creature terrene.


3) Glemselens Elv (Il Fiume Dell’oblio)

Con un’atmosfera marziale, funerea ed evocativa al tempo stesso si apre uno dei pezzi migliori del disco, destinato a determinare un punto fermo nell’intera discografia targata Burzum.
L’abilità indiscutibile di Varg Vikerness nel tessere partiture di profonda malinconia tocca in questo caso vette di magnificenza e pathos poetico elevatissime.
Gli dei, straziati e senza parole per la dipartita del protagonista, assistono impotenti alla cerimonia funebre, dove Belus, ormai privo di vita, viene posto, secondo la tradizione, in una pira funeraria eretta sulla propria imbarcazione. Odino gli sussurra qualcosa che nessuno sente all’orecchio, Thor accende il fuoco col proprio martello e la moglie Nanna si getta senza indugio fra le fiamme, con la speranza di risorgere nel nuovo mondo assieme all’amato marito. Il cavallo di Belus viene sacrificato nella pira, completo di briglie e drappeggi e la barca viene infine spinta in mare dalla gigantessa Hyrrokin con tale violenza, da farla apparire come una palla di fuoco e da far tremare tutta la terra.
La cerimonia funebre di Belus viene dettagliata in modo splendido e toccante. Il dolore degli esseri viventi prende forma attraverso il suono distorto eppur delicato delle chitarre. La voce narrante, dapprima lacerante, poi calda e pulita, descrive lo strazio della terra per la perdita del dio.
La premessa che egli fa a coloro che lo piangono: “Io tornerò indietro; Ritornerò; Quando l’anima dell’inverno sarà debole; Ritornerò a casa.”, risuona nell’aria, vibrante di passione e coraggio, attraverso le parole dell’artista.
Il legame del mito col ciclo stagionale si fa significativo, ricollegando la dipartita di Belus, divinità del sole, con la venuta del freddo inverno.

4) Kaimadalthas’ Nedstigning (La Discesa Di Kaimadalthas)

Per la prima volta nel disco, in seguito ai primi brani improntati su un malinconico mid-tempo, troviamo una canzone decisamente aggressiva, dove un potente riff di chitarra introduce il viaggio di Kaimadalthas (anche Hermóðr o Heimdallr), alla volta dell’oltretomba.
Frigg infatti, dopo aver ritrovato se stessa in seguito l’iniziale disperazione, si accorda con gli altri Aeres per un ultimo tentativo: inviare qualcuno al cospetto di Kelio (anche detta Hel, in omologia col proprio regno), figlia di Leuke e regina degli inferi, e stipulare un patto che consenta al figlio di tornare in vita. Il prode Kaimadalthas, messaggero divino, risponde alla chiamata e, cavalcando Sleipnir, il mitico cavallo dalle otto zampe di Odino, parte da Asgard per un pericoloso viaggio verso l’infausto luogo.
Il brano alterna momenti violenti, dove lo screaming e la velocità si fanno imperanti, a stacchi decisamente più ponderati e caratterizzati da clean vocals particolarmente azzeccate.
L’atmosfera si fa opprimente, quasi a voler mimare i pericoli affrontati dall’eroico messaggero e l’apprensione della madre in attesa del responso.
Il viaggio di Kaimadalthas dura 9 interminabili notti, passate le quali egli giunge finalmente nell’oltretomba, dove trova Belus, pallido e smagrito, a fianco della moglie Nanna. Rivolgendosi a Kelio, il coraggioso messaggero ottiene che il dio possa essere restituito al mondo dei vivi a patto che ogni essere vivente ne pianga la morte. Tornato ad Argard, Kaimadalthas comunica quanto richiesto dalla dea, riaccendendo le speranze della madre e delle altre divinità. Una miriade di elfi messaggeri vengono così inviati in ogni dove, ottenendo che praticamente ogni creatura del mondo versi lacrime per la dipartita di Belus. L’unica a non piangere è la gigantessa Þökk, che condanna in questo modo la divinità ad attendere nell’oltretomba fino al termine del Ragnarok, prima di poter risorgere nel nuovo mondo come predetto nel Völuspá, il primo poema dell’Edda Poetica. Gli Æsir tuttavia, scoprendo che Þökk è in realtà Leuke, lo puniscono violentemente, assicurandolo ad una roccia acuminata e legando un serpente al di sopra della sua testa in modo che il veleno rovente prodotto dall’animale gli scorra sul volto continuamente. Le sue pene saranno placate solamente dalla moglie Sigyn che raccoglierà il liquido con un vaso, limitando le sofferenze del marito solo al momento di vuotare il contenitore.
Leukes riuscirà tuttavia a liberarsi in tempo per partecipare al Ragnarok.
Ma questa è un’altra storia…

Il racconto di Belus da questo punto in poi si perde nella nebbia, lasciando intendere, tuttavia, che per l’amata divinità del sole e dell’Estate non è finita. Belus infatti risorgerà assieme a pochi altri nel nuovo mondo, portando nuova vita e prosperità alla terra.
 


5) Sverddans (La Danza delle Spade)

A supportare un titolo tagliente ed affascinante troviamo il brano più violento del disco, che narra l’accingersi della divinità a sconfiggere la morte. Il legame allegorico fra la narrazione ed il ciclo stagionale si fa sempre più evidente, descrivendo in modo prepotente il prossimo arrivo dell’Estate portato dal ritorno di Belus.
Il brano ricorda profondamente la sfrontata violenza esecutiva della storica “War“, canzone contenuta nell’omonimo debut album del 1992, grazie a ritmiche serrate e ad un solismo caustico. Le vocals quasi sussurrate suonano maligne e sulfuree, dipingendo perfettamente una situazione di minacciosa rivalsa, una cavalcata vittoriosa verso la resurrezione.

6) Keliohesten (Il cavallo di Kelio)

Chitarre fruscianti, una batteria martellante ed ovattata, riff oscuri, provenienti dalle profondità glaciali del Hel. Un’atmosfera priva di pietà, plasmata da vocals digrignanti, soffocate nella rabbia.
Il brano descrive con ferocia la sconfitta dell’Inverno: la neve che si scioglie mutando il proprio stato in acqua, la liberazione finale della divinità, che assume i connotati meno mistici e più terreni dell’avvento della stagione estiva, del risveglio della natura.
 
 
7) Morgenrøde (Alba)

Belus è finalmente risorto, osserva il mondo prosperare sotto la propria confortante luce.
Il sole rosso è all’orizzonte, possente e caldo. Ha ritrovato le proprie energie ed è pronto a consolare la terra, resa arida dal lungo inverno.
La profonda cura con cui l’artista riesce a descrivere il risorgere della vita assieme alla divinità è toccante. Le trame chitarristiche, semplici ma ponderate, assumono in questo caso connotati positivi, un’aura trascendentale di lucente splendore, capace di trasmettere in modo definito figure e sensazioni.   

8) Belus’ Tilbakekomst (Konklusjon) – Il Ritorno Di Belus (Conclusione)

L’opera di Burzum si chiude con un lungo e lento brano strumentale dove, come un delicato moto ondoso, riff ipnotici si sovrappongono, si mescolano, creando una sorta di sensazione di arrivo, di riposo dopo una lunga fatica. La batteria, morbida e scandita come i battiti del cuore, amalgama le sensazioni, riporta la pace.
Dopo questo magico viaggio ci accingiamo a nostra volta a camminare verso quella che definire fine sarebbe errato, in quanto immagine di un ponte verso la vita che rifiorisce, creato dal frusciare lento e ruvido delle chitarre, su semplici, sparuti accordi. Pallidi raggi di sole che scaldano un mondo rinato.

Concludendo: questo Belus, ultima fatica in studio di Burzum, segna un collegamento diretto tra passato e futuro di uno degli artisti più particolari e discussi della storia del Metal. E soprattutto, senza usare mezzi termini, Belus è un disco bello, di quelli che al giorno d’oggi se ne trovano pochi. Libero da schemi, pura espressione di un artista, ricco di pathos e significato. Il tutto espresso magistralmente attraverso pochi riff ricercati ma non ostentati. Chi capisce Burzum, apprezzerà l’album, chi non lo conosce probabilmente lo apprezzerà ugualmente, mentre chi si aspetta un nuovo “Det Som Engang Var” o affini rimarrà giustamente e pesantemente deluso.
Come già scritto, il savoir faire ed il mestiere non mancano, tuttavia la classe compositiva e visionaria che ha sempre caratterizzato i lavori di Burzum non è stata intaccata dal tempo, semmai è stata temprata e purificata.
A questo punto, se siete arrivati a leggere fin qui, l’unica cosa che vi rimane da fare è ascoltare Belus, espressione finale di quanto Varg Vikernes ha coltivato nella propria mente per quasi vent’anni, filtrata però attraverso passione e consapevolezza assolutamente rinnovate.

Alessandro Cuoghi

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Lineup:

Varg Vikernes: vocals; all instruments


TRACKLIST:

1. Leukes Renkespill (Introduksjon)
2. Belus’ Død
3. Glemselens Elv
4. Kaimadalthas’ Nedstigning
5. Sverddans
6. Keliohesten
7. Morgenrøde
8. Belus’ Tilbakekomst (Konklusjon)

 

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