Recensione: Berserker
Avevo abbandonato gli Amon Amarth subito dopo “Surtur Rising” – che a me, lo ammetto, era piaciuto, sebbene non fosse proprio l’apice compositivo del gruppo – a godersi il loro destino fatto di successo, tour mondiali, drakkar in fiamme durante i concerti e noia musicale. Li ritrovo oggi con il loro ultimo album, “Berserker” (uscito per la verità già da alcuni mesi), più o meno esattamente dove li avevo lasciati. Il quintetto di Stoccolma, infatti, non si discosta di un millimetro dalla formula ben rodata che li ha consacrati tra i nomi grossi del metal e che ormai è diventata un vero e proprio marchio di fabbrica. Lontani dal death furente degli esordi, i nostri prodi svedesoni, amanti di Tolkien e delle saghe dei loro antichi padri, propongono da un po’ di tempo a questa parte un metal più enfatico, avvolgente ed accattivante, che nonostante i continui echi e reminiscenze del passato è ormai più vicino al metallo classico condito da un vocione ferino che ad altro. In realtà va dato atto al gruppo di aver cercato più volte di introdurre nel proprio suono alcuni elementi abbastanza lontani dalla loro nuova comfort-zone, e anche in “Berserker” la cosa si avverte in più di un’occasione (ad esempio l’intermezzo narrato della tamarrissima “Shield Wall”, nelle pacate aperture sinfoniche e pianistiche di “Valkyria” e della conclusiva “Into the Dark” o nei rallentamenti più delicati sparsi qua e là); ciononostante, se da un lato i nostri arricchiscono il loro suono per donargli una resa epicheggiante e maestosa, dall’altro si guardano bene dall’uscire davvero dai confini del loro modo di intendere il metal, sgusciando abilmente dietro una confezione sbrilluccicosa e tanti effetti speciali per distrarre l’ascoltatore da una proposta piuttosto stagnante. Nonostante i timidi tentativi disseminati lungo l’oretta che compone l’album, infatti, il risultato finale rimane comunque pervicacemente radicato negli stilemi ormai cristallizzati dal nerboruto quintetto, che gioca sul sicuro con un trademark consolidato che è al tempo stesso (a mio modestissimo avviso, sia chiaro) il principale pregio e maggiore tallone d’Achille dell’ensemble. L’ingrediente principale di cui è composto “Berserker” è lo stesso degli ultimi anni: un heavy metal impattante fatto di rapide cavalcate, ritmi martellanti, armonie poderose e mascoline, chitarre tracotanti e il già citato vocione raschiante e gutturale di Johan Hegg a donare pesantezza, il tutto ben incartato da una produzione grassa e croccante. Al netto di quanto scritto finora, “Berserker” vi potrebbe sembrare l’ennesima uscita senza infamia e senza lode, di mestiere, fatta per portare a casa la pagnotta. In effetti lo è, ma anche alla luce di questo dato (e considerando qualche canzone un po’ sottotono che ne diluisce la densità), devo dire che “Berserker” non mi è del tutto dispiaciuto: nonostante la lunghezza scorre bene, procedendo spedito per la sua strada fatta di tracotanza, muscoli bene in vista e gli immancabili inni al Valhalla per fomentare gli animi. Da questo punto di vista tutto funziona come dovrebbe. Il grosso, vero difetto di questo lavoro risiede a mio avviso a monte, e cioè nella sua natura fin troppo calcolata: per ampi tratti del suo considerevole minutaggio si percepisce il desiderio dei nostri di scrivere canzoni che vadano bene a tutti, fin troppo accattivanti, perdendo così per strada un po’ della sana rabbia che avrebbe giovato enormemente a quest’album, donandogli il giusto mordente e levandogli di dosso il fastidioso alone da ascolto mentre pompo in palestra.
Niente di nuovo sotto il sole, insomma: ora gli Amon Amarth sono questi, punto e a capo. Sicuramente gli estimatori del gruppo svedese ameranno comunque quest’album, apprezzando il buon bilanciamento degli elementi che i nostri, ormai, padroneggiano ad occhi chiusi, fondendo alla perfezione carica e tamarraggine accalappia consensi, e non dubito che molti nuovi discepoli si uniranno alla pletora dei loro fan grazie proprio a questo “Berserker”. Al tempo stesso, i detrattori e i vecchi fan del gruppo non cambieranno certo idea di fronte a questo undicesimo capitolo discografico, giudicandolo forse un po’ scontato e privo della furia del tempo che fu.