Recensione: Betsy
I Bitch di Betsy, al secolo Betsy Weiss del New Jersey, sono stati una delle band più sottovalutate del metal americano. Degli anni ’80 è praticamente stato recuperato tutto o quasi, i Bitch fanno parte di quelle frattaglie che, per qualche motivo, non sono state riscoperte. “E ci sarà anche il suo bel motivo”, qualcuno starà pensando. Ok, ditemelo, perché francamente non ci arrivo. Con il fondo del barile raschiato e addirittura sfondato, i Bitch oggi si ritaglierebbero certamente una posizione d’elite tra le tante band collaterali e periferiche che quel decennio ha prodotto. Due full-length effettivi tra l’83 e l’87 (“Be My Slave” e “The Bitch Is Back“) ed altrettanti EP a fare da alfa ed omega di una carriera che non è mai decollata, nonostante anche una accentuata provocatorietà di testi, attitudine e look.
Anche per questo nel 1988 decisero di prendere la cosa da un altro verso, ribattezzando la band Betsy (altro monicker in onore della frontwoman, esattamente come il precedente, ben più esplicito) e pubblicando un album omonimo. L’operazione di restyling è evidente in tutto. Il logo abbandona i provocatori sex toys e diventa quello di una specie di casata nobiliare, con tanto di stemmi araldici a far da cornice (anche se il tutto ricorda più un’azienda di motociclette che dei sangue blu), Betsy in copertina diventa una ingioiellata signora upper class tra le mille luci di Los Angeles, accandonando il suo passato di dominatress da osteria.
Il sound naturalmente riflette questo rinnovamento estetico, importando la stessa filosofia di normalizzazione e ingentilimento delle forme. Le composizioni si fanno (relativamente) più eleganti, la sguaiatezza e l’irriverenza sboccata degli esordi (il primo EP “Damnation Alley” aveva le tette di Betsy in copertina e non è che gli artwork successivi la vedessero più coperta, anzi) vengono messe a freno, domate, calmierate, in un processo di allargamento dei confini del potenziale pubblico pagante. Il gruppo riteneva che il monicker Betsy, col suo portato di volgarità, avesse finito col costituire un handicap per l’airplay radiofonico e mediatico, e che l’ammorbidimento del songwriting avrebbe convinto i più deboli e spaventati dalle fruste della Betty Rizzo del bondage metal.
Certo ci fu della ruffianeria in questa visione, tuttavia non bisogna pensare che “Betsy” sia un disco falso, effimero o privo di contenuti. Perché la band c’è, il talento era emerso forte e chiaro con la discografia a nome Bitch, e appena una manciata di mesi non potevano aver rincitrullito completamente i nostri. E’ vero che “Betsy” è il fratello minore dei vari “Be My Slave” e “The Bitch Is Back“, ma è altrettanto vero che si tratta di un album discreto, godibilissimo e disseminato di momenti anche assai pregevoli (“The Devil Made You Do It“, “Cold Shot To The Heart“, “Turn You Inside Out“, “Stand Up For Rock“, “Sunset Strut“) che spingono della direzione di un metal rock tra Lizzy Borden, Alice Cooper (grande pallino della Weiss) e Pat Benatar.
Divebomb Records oggi ristampa il disco originariamente uscito per Metal Blade, corredandolo di un paio di tracce bonus (“Walls Of Love“, comparsa solo sulla raccolta postuma “A Rose By Any Other Name“, e un remix della dinamitarda “Sunset Strut“), foto d’archivio e un’intervosta a Besty. Vale la pena recuperarlo, a patto che sia il trampolino di lancio per andare a togliere le ragnatele (naturalmente fetish) anche dalla discografia dei Bitch, essenziale se si vuole masticare un po’ di rock scomodo a stelle e strisce degli anni ’80.