Recensione: Between Our Past and Future Lives

Di Francesco Sgrò - 22 Aprile 2015 - 19:18
Between Our Past and Future Lives
Band: Abbot
Etichetta:
Genere: Doom 
Anno: 2014
Nazione:
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59

Dopo aver pubblicato tre singoli tra il 2012 e il 2014, i finnici Abbot arrivano con fierezza al traguardo dell’esordio discografico, realizzando questo “Between Our Past And Future Lives”.
Presentato da una copertina minimale ma interessante nella sua semplicità, l’opera prima del combo finlandese si muove su sonorità tipicamente Doom contaminate da leggere venature di Southern Rock, per un mix finale psichedelico, ipnotico e squisitamente anni ’70, come dimostrato pure da una produzione ruvida e polverosa, del tutto efficace in questo contesto specifico.

Un mastodontico riff chitarristico si pone come spina dorsale della magnetica “Child Of Light”, sulfurea ed enigmatica opener in cui a colpire maggiormente sono le disturbate melodie vocali condotte dall’alcolica voce del singer JP Jakonen, coadiuvato però, da una sezione ritmica che, a dire il vero, ci è parsa parecchio opaca e poco incisiva. Una pecca che non permette al brano di decollare, suggellando una partenza non proprio riuscita.

La band corregge subito il tiro: la seguente “Diamond Heart” riesce a far filtrare un po’ di luce nell’oscurità in cui era prigioniero il platter fino a pochi istanti prima. Il brano, infatti, risulta costruito su velocità maggiormente sostenute in cui a dominare è sempre il valido lavoro svolto dalla sei corde del bravo Jussi Jokinen, chitarrista che con buon mestiere sembra voler quasi rievocare lo stile dei primi Black Sabbath (quelli di “Paranoid”), incastonando un riff semplice ma d’impatto. Anche questa volta tuttavia, il buon esito del brano non è sorretto da una sezione ritmica davvero efficace …un vero peccato.

Il Doom più tradizionale torna poi ad impossessarsi delle trame musicali del disco con la cadenzata e caratteristica “Grave Encounters”, canzone che pur essendo melodicamente interessante, risente ancora della pesante fiacchezza che purtroppo caratterizza la base della band nordica, risultando, alla lunga, tediosa e soporifera.
Con la più energica “Moonsnake Child”, gli Abbot sembrano ritrovare la giusta ispirazione, confezionando un episodio strutturalmente articolato e sufficientemente evocativo.
Buone intenzioni animano anche la successiva e massiccia “Supermind” che, fortunatamente, sembra mantenere la qualità dell’album su buoni livelli.
Non male nemmeno la rocciosa Title Track, ancora una volta graziata dall’ottimo riff scaturito dalla chitarra del già citato Jussi Jokinen.

Il gruppo alterna con discreti esiti brani dai ritmi vivaci ad altri maggiormente cadenzati ed intimisti, arrivando quasi ad esplorare lande Rock/Blues, senza dubbio piacevoli ed interessanti: è questo il caso della fumosa “Mr. Prowler Man”, contraddistinta in negativo (purtroppo) dall’ennesima opaca prova ritmica del batterista Antti Kuusinen che, come in altri momenti dell’album, non si rivela purtroppo all’altezza della situazione, tanto da penalizzare nel complesso un lavoro concluso con la psichedelica “Keep On Moving”.

In definitiva, luci e ombre caratterizzano questo esordio, in cui purtroppo delle buone capacità compositive non bastano per salvare una release tecnicamente approssimativa ed alla lunga un po’ tediosa.
Speriamo in ogni caso che il gruppo riesca ad imparare dai propri errori, raggiungendo ben altri risultati in futuro…

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