Recensione: Between The Madness
Difficile è stato, in passato, il compito di assimilare un disco dei Vangough e, di conseguenza, darne una valutazione definitiva. Nonostante non abbiano mai nascosto la passione verso la musica dei primi Pain of Salvation, le loro architetture sonore non erano immediate e, spesso, non troppo orecchiabili. Il precedente “Kingdom of Ruin” rappresentava in tal senso un ottimo passo avanti rispetto al primo, comunque riuscito, “Manikin Parade”, poiché fondeva sentimento ad una complessità che non derivava né dalla lunghezza dei brani, né dallo sfoggio puramente tecnico, ma proprio da questo ricercare continue melodie mai banali e sempre ispirate. Il lato “oscuro” della band, che era stato sfiorato dal disco precedente nella sua prima parte, viene esaltato di più in questo nuovo “Between the Madness”.
Anche la produzione che precedentemente non è mai stata un granché, questa volta fa un passo avanti, rendendo il volume della voce meno invadente e centrale, mentre chitarra e batteria presentano un suono più pulito e meno grezzo. Dal punto di vista stilistico viene a mancare un po’ il lato romantico e “affettivo” dell’ottimo “Kingdom of Ruin”, esaltando quello più diretto e aggressivo, senza scadere però sulla pura manifestazione di rabbia e sofferenza. Il tutto viene, quindi, addolcito da melodie introspettive che fanno la loro comparsa in modo imprevedibile, spezzando quella pesantezza ricercata in questo nuovo lavoro. Non significa che abbiano rinunciato al “cuore”, tutt’altro, ma forse, anche per le tematiche trattate, il tipo di “cuore” di cui stiamo parlando verte a qualcosa di più sofferto e malinconico.
Il risultato finale è uno dei dischi più interessanti usciti in questo ultimo periodo. L’apertura è affidata ad una “Afterfall” che non fa, qualitativamente parlando, saltare dalla sedia, ma affascina e graffia, seguita dalla migliore e più varia “Alone”, e dall’ottima “Separation”. Di quest’ultima è apprezzabile tutto il lavoro svolto, soprattutto nel ritornello che si apre distendendo una buona sintesi tra passionalità melodica e rudezza. Un altro punto a favore del disco è “Infestation”, con il suo incedere vagamente minaccioso, supportata da una convinzione vocale che ne sostiene quasi tutta la buona riuscita. Clay Withrow adesso è più consapevole delle sue potenzialità, e il coraggio guadagnato lo porta ad esprimersi completamente. “Schizophrenia” è l’episodio forse più complesso e meno oscuro del disco, ma quello che non funziona bene è un ritornello un po’ piatto che ne abbassa il livello. Non lo definiremmo un punto debole, ma nemmeno un pezzo forte.
“Between the Madness” è la prima suggestiva strumentale, che prepara a forse il miglior brano: “Vaudeville Nation”. Un misto tra aggressività, epicità e melodia, il tutto ben compattato in sei minuti senza dispersioni e cali di sorta. La seguente “O Sister” è una semi–ballad con due facce: la dolce malinconia e la disperazione, che esplode nel sofferto e un po’ monotono ritornello. Dopo la minacciosa e possente strumentale “Thy Flesh Consumed”, si passa a “Useless”. L’episodio più variegato, dove il cantato di Withrow ricorda moltissimo quello di Daniel Gildenlow. Il lato vincente della canzone è la sua varietà ed imprevedibilità, dove episodi di rabbia pura si fondono con momenti di maggior respiro.
Siamo arrivati alla fine con “Dephts of Blighttown”, la terza strumentale vagamente teatrale con l’onnipresente violino che introduce a “Corporatocracy”. Un altro pieno centro per i Vangough, che chiudono in bellezza un disco con dei leggeri cali che, a conti fatti, non pesano più di tanto sul risultato raggiunto. In definitiva “Between the Madness” si presenta meno complesso dei due precedenti lavori, più diretto, breve e compatto. La personalità della band, nonostante le evidenti influenze, inizia ad essere più marcata, e ci si aspetta che esca fuori in tutta la sua creatività.
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