Recensione: Between You, God, the Devil and the Dead
A quanto pare gli svedesi Avatarium non vogliono fermarsi; a poco più di due anni dal precedente (e ottimo) “Death, Where is Your Sting” eccoli tornare con un lavoro che ne sviluppa ancor di più la ricerca espressiva, esplorando la condizione umana e il significato della vita. “Between You, God, the Devil and the Dead”, in uscita tra pochi giorni, si pone come ideale prosecuzione del precedente lavoro del quintetto nordico, che esplora nuovi territori e colora la propria musica con quanto appreso. Ne risulta un lavoro cangiante e sfaccettato ma al tempo stesso omogeneo, che nonostante la ricerca non si perde per strada ma serpeggia tra umori e consistenze differenti, forte della perfetta coesione e il giusto tasso di complicità tra le menti creative del progetto. Otto brani per tre quarti d’ora scarsi di musica cupa, drammatica, sensuale, trasognata, intensa, ammiccante, desolata e malinconica: otto gemme dai riverberi multiformi che si rimpallano umori ed emozioni diverse beneficiando di una scrittura elegante e scorrevole, di una profondità perfettamente cesellata e delle notevoli dosi di classe che il quintetto sa dispensare così bene. Le origini del gruppo tornano a farsi vive, seppur in modi meno convenzionali del solito, nelle ottime trame sonore del gruppo, che ammanta tutto “Between You, God, the Devil and the Dead” di drappeggi oscuri e riff pesanti ma senza, per questo, riciclare il passato. Come al solito, tutto il gruppo mette in mostra una stoffa esemplare, ma la ciliegina sulla torta è ancora costituita dai coniugi Jidell–Smith: il primo ricama dialoghi intensi, eleganti e d’impatto tra la sua chitarra e il resto degli strumenti, mentre la voce della seconda corona ogni anfratto sonoro con la sua versatilità ad alto dosaggio di classe, donando al tutto il giusto contrappunto.
“Between You, God, the Devil and the Dead” inizia in modo imperioso: “Long Black Waves” incede con l’ambivalenza guardinga e sorniona di chi sa che sta per piazzare la zampata, che prontamente arriva con la breve fiammata del ritornello dal piglio più enfatico a scompaginare le carte. La canzone procede così, rintuzzando sapientemente citazioni sabbathiane su una struttura che, sotto veli impalpabili di languido abbandono, cela una più oscura ed ipnotica pesantezza, perfettamente fotografata dall’ingresso di Hammond nel finale. Neanche il tempo di rifiatare che arriva il secondo colpaccio col singolo “I See You Better in the Dark”, pubblicato un paio di mesetti fa. Il pezzo, nonostante un’apertura incombente e i soliti drappeggi plumbei che spuntano di tanto in tanto, cambia registro emanando vibrazioni più debitrici degli anni ’70, rockeggianti e sinuose. Inutile dire che i nostri fanno centro un’altra volta, mescolando come sempre classe ed attitudine che imprimono al pezzo il suo piglio quasi radiofonico, coronato da un ritornello glorioso e un assolo sfacciato ed impattante. Un malinconico pianoforte sostiene una Jennie più contenuta e sofferta nella successiva “My Hair is on Fire (But I’ll take your Hand)”. Qui i ritmi tornano a farsi lenti, cupi, drammatici, con i ripetuti inserimenti degli strumenti elettrici che spezzano il fare languido e dolente della traccia donandole spessore ed incombenza pur mantenendo alto il tasso di pathos. “Lovers Give a Kingdom to Each Other” si addentra ancor di più in territori musicali dimessi e languidi con voce, piano e chitarra acustica che spandono intorno a sé un umore malinconico e notturno, sostenuti da una sezione ritmica sorniona ma non priva di note inquiete. La chitarra elettrica entra in scena solo in occasione della sezione solista finale, donando al tutto un tono crepuscolare. Con “Being with the Dead”, invece, si torna a drappeggi plumbei e sporadici indurimenti per ammantare di un’atmosfera sinistra un pezzo cadenzato e cantilenante che in certe soluzioni si vena di psichedelia, acquisendo un fare ipnotico a metà tra sensualità ed inquietudine. Con “Until Forever and Again” i nostri calcano ancor più la mano, caricando le atmosfere del pezzo precedente di un’aura mefistofelica spruzzata, di tanto in tanto, di epica oscura e minacciosa. La traccia si mantiene su ritmi lenti, cadenzati, pesanti, e sfrutta riverberi vocali e le intromissioni di hammond per mescolare atmosfere fumose da jazz club con improvvisi ispessimenti più cupi e intermezzi guardinghi, maliziosi, confezionando un pezzo in cui la tensione narrativa resta sempre sul chi va là, a un passo dal punto di rottura. La strumentale “Notes from the Underground” non concede tregua, sostenendo con fare ipnotico e serpeggiante una chitarra languida e nuovamente sensuale che, all’improvviso, si fa cupa, minacciosa, ammantata da orchestrazioni dal retrogusto esotico che sfumano poi nella conclusiva “Between You, God, the Devil and the Dead”. Qui, il suono del pianoforte e la voce della Smith allentano la tensione fin qui accumulata, dando vita a una traccia mesta e toccante punteggiata dalle sporadiche incursioni del resto del gruppo, che le donano il suo tono elegiaco ed agrodolce, il cui climax intriso di malinconia e speranza in pari quantità pone il sigillo su un altro album di gran classe.
“Between You, God, the Devil and the Dead” è, senza girarci troppo intorno, un altro centro per gli Avatarium: la compagine svedese suona ciò che le pare senza snaturarsi o dimenticare le proprie origini, ma sfruttandole per creare un tourbillon poliedrico, intenso e ricercato e benedicendo il tutto con una classe cristallina. Promossi, c’erano dubbi?