Recensione: Beware The Sword You Cannot See
Ma perché chi fonda una band dovrebbe fare musica e basta? Questa la domanda posta dai britannici A Forest of Stars, mostro a sette teste fuoriuscito ormai dieci anni fa dalle brughiere dello Yorkshire e dalla decadenza gotica dell’età vittoriana. O più semplicemente, i gentlmen del metallo, vista la loro gustosa estetica a metà strada tra Oscar Wilde e Jack lo squartatore. Una estetica che non coinvolge semplicemente la proposta musicale o i testi, ma si espande anche ai video che i nostri realizzano,per arrivare alla composizione del loro sito ufficiale – una delle cose più affascinanti e cervellotiche che si siano mai viste nel web metallizzato.
Tornano ad irrorare le nostre debosciate orecchie a tre anni di distanza da quel A Shadowplay for Yesterdays che ha tutti i crismi dell’album di culto e molti dell’opera inarrivabile. Un miscuglio di contrasti, violenza e poesia, blackmetal e psychefloidia, il tutto immerso nell’amara foschia della perfida Albione, in sostanza una favolosa interpretazione del black nella più elegante delle sue accezioni.
“E dunque,” si saranno detti i nostri intingendo i biscottini al laudano nel tè delle cinque, “per qual mai motivo dovremmo lasciar la strada intrapresa per far qualcosa di diverso?”. Tanto più che se il cammino è attraverso le sopracitate nebbie perennemente avviluppate attorno alle brughiere di Northumbria, a lasciar la strada battuta il rischio di perdersi è grande e quello di buttar fuori una porcata d’album è poi terrificante.
Ecco dunque che Beware the Sword you cannot see, il nuovo parto dei sette risulta muoversi su terreni molto affini a quelli del predecessore. E menomale. Ci troviamo ancora una volta innanzi a ad un tetro esempio di black atmosferico, interpretato sì con decadenza, ma pure con spirito progressivo, e non solo per quelle tinte psychefloydiane che qua e là emergono tra le pieghe del disco. Il tutto si traduce undici (o forse sarebbe più corretto dire sei) composizioni dalla struttura difficilmente descrivibile, composizioni nelle quali, in virtù di sapienti cambie di ritmo, si sposano al black elementi di folk e di progressive, chitarre a martello, radure acustiche, frusci di violino e sussurri di flauti.
In tal senso la opener Drawing down the Rain si attesta su livelli altissimi: un pezzo impossibile da descrivere dati gli innumeri movimenti di cui si compone ma già dal primo riff di questa suite (ché di suite si tratta) fino al passagio catartico dominato dalla voce di Katherine la sensazione è che gli araldi del deboscio abbiano fatto ancora centro.
Relativamente più semplici risultano essere i due brani successivi, che pur alternando cambi di ritmo abbastanza marcati, si mantengono in maniera abbastanza netta nelle file del black atmosferico. In tal senso A blaze of Hammers regala momenti davvero intensi grazie a riff e violini magici. Premiano il curioso stile di Mister Curse, il cui growl ogni tanto degenera in un rantolo strascicato che ricorda, con intramontabile nostalgia, il Vincent Cavanaugh profeta di The Silent Enigma. Virtus Sola Invicta vira nuovamente su atmosfere più bucoliche, fatte di flauti alla Jethro Tull, momenti acustici e chitarre languide, divenendo il pezzo che Mikael Åkerfeld dovrebbe sentire per dare un senso ai suoi nuovi Opeth, prima che Pawn of the Uninversal Chessboard torni di nuovo, con riff liquidi, ai livelli sublimi della opener . E poi viene la suite conclusiva, una cavalcata epica e senza nome divisa in 6 parti. Quanto detto finora possono anticipare quanto sentirete in questi venti minuti, pure la tastiera non può bastare, e si lascia agli audaci il compito di scoprire tutte le pieghe di questa odissea nei mari della malinconia.
Ancora una volta dunque ci si perde con meraviglia attraverso la Foresta di stelle. Un gruppo ormai giunto a completa maturazione, una band che ha ormai affinato il proprio sound, limando le asperità di A Shadowplay for Yesterdays. Se questo nuovo capitolo nella storia dei sette possa surclassare il suo predecessore risulta arduo sentenziarlo in questo momento (ma in questo momento surclassare A Shadowplay for Yesterdays sembra arduo a qualsiasi livello). Resta il fatto di trovarsi innanzi ad un lavoro estremamente ricco e carico di fascino, ennesima perla nera di un 2015 che, se continua così finirà negli annali dell’epopea black.