Recensione: Bewitcher
Per chi scrive, questo 2016 è stato, al contrario dell’anno precedente, un anno molto più ricco di novità, di album di valore non solo da parte dei soliti (noiosi, aggiungerei) grandi nomi, ma anche da parte di tante piccole realtà che, discograficamente parlando, hanno più o meno lasciato il segno, pur senza inventare chissà cosa.
Tante volte mi sono espresso circa il concetto che per creare grandi opere non devi necessariamente essere per forza di cose originale, quanto piuttosto basta esprimere quello in cui si crede fermamente al 100%, con la dovuta dose di passione ed esperienza al seguito: se crei qualcosa di poco convincente in primis per te stesso, chi è più attento della media si accorgerà quasi immediatamente della pochezza della tua convinzione musicale.
La motivazione è anche radicata nel fatto che sebbene oggi creare musica sia infinitamente più facile rispetto a ieri, è più difficile emergere: da una parte ciò porta alcune label alla disperata ricerca di band nella media senza nulla di concreto da aggiungere (perchè anche il metal è nel suo piccolo un fenomeno mainstream e negarlo sarebbe semplicemente un controsenso) portando alla saturazione del mercato e della relativa offerta, dall’altra moltissime band talentuose rmangono fuori dai giri che contanno ed in cui meriterebbero di essere.
Una causa è sempre conseguenza dell’altra insomma, come il classico cane, gatto o serpente che sia, con la perenne dannazione di mordere in continuazione la propia coda. Detto ciò, è veramente piacevole constatare come, ogni tanto, dal più fervido underground qualcuno riesca finalmente ad emergere: gli statunitensi Bewitcher fanno parte di questa ampia facciata nascosta del mercato, quello che meriterebbe qualche chance in più.
L’omonimo platter di questo act statunitense non smentisce minimamente l’ascoltatore: questo è speed metal, ma di quello suonato con le palle, quello davvero heavy, come se gli Exciter andassero a braccetto con i Venom e i Raven in una poderosa corsa in sella ad una Harley, dritti verso le fiamme dell’inferno, nella ricerca del Sacro Graal del Rock n’ Roll custodito dal Sommo Mastro Lemmy Kilmister ( – Eterno rispetto, O’ Nostro Maestro! – Nda).
Questo è quello che rappresenta “Bewitcher”, sin dal suo primo momento: dopo un brevissimo intro orrorifico sullo stile dei film di Dario Argento, partono i classici ‘chitarroni belli spinti’ dell’omonimo brano ed è subito caos! La produzione scelta per l’occasione è non eccessivamente moderna, ma la definizione e la brillantezza generale del suono è sufficiente quanto basta per rendere questo platter un degno figlio della sua epoca. Ci sono i riff, i rallentamenti, gli assoli e soprattutto vi è una voce esaltata ed assassina a guidare le danze, una voce che attraverso le sue liriche pesudo-sataniche (cosa che onestamente sembra un po’ una moda in ambito speed metal, negli ultimi anni) lancia questo o quell’anatema demoniaco, rigorosamente in salsa fortemente anthemica, borchiata e metallica.
Un disco da ascoltare con le corna al cielo, mentre l’altra mano sostiene una generosa pinta di birra, vestiti di gilet con toppe, pantaloni sdruciti e sneakers di tela, esattamente come se quel 1986 non fosse mai passato: l’effetto headbanging è costante, onnipresente tra brani non esattamente originali ma maledettamente efficaci quali ‘Sin Is In Her Blood’ (brano ufficialmente candidato alla palma di inno speed metal per eccellenza del 2016), i tempi moderatamente più ragionati ma sempre pesanti come un macigno di ‘Harlots Of Hell’ (grandissimo quel riverbero old school sulla voce, ottima soluzione per far spiccare il brano rispetto al resto) oppure le accellerazioni impazzite di ‘Black Speed Delirium’ (…il cui testo cita ‘At The Speed Of Satan’! Grandi!) vale a dire un brano che, partendo da un poderoso mid-tempo, si evolve in men che non si dica nel caratteristico tempo battuto in ottave, tipico dello Speed appunto.
Nonostante questo debutto, come già detto, non brilli esattamente di originalità e tutti i brani che lo compongono (nove in tutto) alla fine risentano come è logico che sia della caratteristica ed allo stesso tempo difetto peculiare dello speed metal (dipende dai punti di vista), vale a dire la celeberrima ‘batteria in tupa-tupa’ con relativi brani che si adagiano di conseguenza su tale schema compositivi, ci sarebbe anche da dire che la corposa produzione e l’ottima performance del terzetto sono capaci di rendere ogni brano a suo modo differente dal precedente e/o dal successivo: cosa invero non rara ogggiorno, ma che anche in questo caso non guasta di certo.
Un disco maledettamente trascinante, casinaro: nulla di più, nulla di meno.
E nulla di più noi chiediamo, al buon caro Speed Metal, meglio ancora se suonato ‘At The Speed Of Satan’!