Recensione: Beyond
In “O fortuna”, testo 17 della raccolta poetica medioevale conosciuta come Carmina Burana, musicata dal bavarese Carl Orff, la sorte è paragonata alla luna: variabile nel suo stato, sempre crescente o decrescente, capace di tormentare, prostrare e ridurre in schiavitù anche il più forte degli uomini.
Che ci azzecca il fato con “Beyond”, ultima uscita degli Autograph? Se continuate la lettura vedrete che ci azzecca.
Dalle ceneri dei Wolfang, in cui militava il chitarrista e vocalist Steve Plunkett e il bassista Randy Rand (band che nei tardi anni settanta faceva puntualmente il pienone nei club del Sunset Strip, ma che non riuscì a spiccare il volo assieme ai Van Halen e ai Quiet Riot con i quali condividevano la scena losangelina), con il reclutamento del talentuoso Steve Lynch, chitarrista solista e virtuoso (secondo alcuni inventore) della tecnica del multi fingers tapping, del batterista Keni Richards e del tastierista Steven Isham, nascono nel 1983 gli Autograph.
La neonata band vide l’anno successivo la fortunosa partecipazione, grazie all’intercessione di David Lee Roth, al tour dei Van Halen, interrotto, dopo 48 date, per l’intervenuto accordo con la RCA che li portò in studio per la registrazione dell’album di esordio “Sign in Please”.
L’ultimo dei pezzi registrati, “Turn Up The Radio”, che non aveva assolutamente destato l’attenzione della casa discografica, la quale si era limitata ad includerlo nel set, si ritrovò a essere inaspettatamente il più grande successo in carriera degli Autograph piazzandosi nella parte alta delle classifiche.
Le discutibili scelte della RCA che spingeva per la realizzazione in tempi brevi di altri album e i managements latitanti e non all’altezza, portarono il gruppo a perdere via via terreno, nonostante l’impegno live come supporter nelle tournée di Mötley Crüe, Heat e Aerosmith, sino all’avvento del grunge che tarpò definitivamente le ali al gruppo, provocando la diaspora dei suoi membri e lo scioglimento.
Riunitasi nel 2011 soprattutto grazie a Randy Rand che non ha mai smesso di credere negli Autograph, la band presenta “Beyond” con Simon Daniels (Jailhouse, Flood, 1RKO) alla voce, il portentoso Jimi Bell (House of Lords) alla chitarra, Marc Wieland alla batteria e l’unico membro fondatore rimasto al basso, galvanizzato dalla nuova formazione, dal feeling creatosi tra i suoi componenti e dalla imminente uscita con Frontiers.
Dopo la registrazione dell’album, Randy, che aveva ricevuto notizie non confortanti sul proprio stato di salute e aveva espresso la volontà dell’uscita del platter anche nel caso della propria morte, è venuto improvvisamente a mancare nell’aprile di quest’anno.
“Beyond” può, pertanto, ben essere considerato il testamento spirituale del musicista americano: un album 100% hard rock vecchia scuola, energico, frizzante, positivo, che cattura lo spirito degli anni ‘80, riproponendolo con sonorità attuali, senza, tuttavia, mai perdere di vista lo stile classico del genere.
Trovare i più riusciti tra i dodici brani della scaletta, tutti egregiamente sorretti dalla valente sezione ritmica, ben interpretati dalla ruvida voce bluesy di Daniels e impreziositi dagli stupefacenti assoli di Bell, è impresa davvero ardua.
Ottimo il brano di apertura “This Ain’t the Place I Wanna Be” di bellezza assolutamente disarmante.
Non da meno sono “Beautiful Disaster” con riff e atmosfere Blue Öyster Cult, l’accattivante “Heart of Stone” e la solare “Feel so Good”.
“Flying High” offre un bel connubbio tra un riff Aerosmith e un chorus Def Leppard ed esaltante risulta essere “To Be Together” brano a cui è affidato la conclusione del lavoro.
Il classico disco da mettere e rimettere su per fare festa tutta la notte che ha come unica nota stonata la prematura dipartita di Randy Rand.
In effetti lo sfortunato musicista avrebbe meritato di godere della rinnovata attenzione che l’album indubbiamente richiamerà sul gruppo…
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