Recensione: Beyond the Black
Quinto album per i tedeschi Beyond the Black, che a tre anni dal controverso “Hørizøns” sfornano l’auto titolato “Beyond the Black”, un lavoro che sa tanto di rivendicazione identitaria. Dopo le critiche dovute alla diluizione sonora del sunnominato predecessore – la cui deriva pop, al di là dei soliti strepiti riguardanti tradimento e commercializzazione sentiti in giro, mi era parsa comunque più che decorosa – i nostri portano avanti il loro discorso facendo un mezzo passo indietro. Al di là delle battute, è innegabile che “Beyond the Black” si presenti come un lavoro dall’indole più corposa e muscolare, che gli alemanni sporcano di elettronica per donargli un retrogusto moderno e piacione ma anche solido e, a suo modo, trasversale. Il quartetto non rinnega nulla del recente passato (tant’è che l’accessibilità e l’immediatezza di “Hørizøns” sono rimaste) ma a questo giro il tutto è veicolato attraverso un linguaggio più rock, stiloso e patinato finché si vuole ma anche ficcante il giusto e dotato di un buon tiro. Come sempre, il punto luce del gruppo è costituito dalla voce di Jennifer Haben, tenuta giustamente in primo piano e pronta ad esplodere nei numerosi ritornelli degni di nota che costellano “Beyond the Black”.
Si parte propositivi con “Is There Anybody Out There”: chitarre spesse, melodie dinamiche e ritmi coatti si appropriano della scena, mentre Jennifer mette in mostra un piglio sfacciato che ben si adatta al tiro determinato e trascinante del pezzo. “Reincarnation” abbassa di poco il tasso di dinamismo per screziarsi di profumi vagamente celtici grazie agli arpeggi acustici. Il ritmo più scandito dona al pezzo una certa carica anthemica, rovinata dalle intromissioni di voce ruvida durante l’enfatico ritornello che ne smorzano di parecchio la resa. Un arpeggio sognante apre “Free Me”, traccia lenta e ammiccante che esplode nel ritornello maestoso. Le chitarre si fanno sentire solo di tanto in tanto, alternandosi alle orchestrazioni e facendosi sempre più presenti man mano che ci si avvicina al finale. Si torna propositivi con “Winter is Coming”, cavalcata venata di elettronica e di melodie semplici e anthemiche che, di tanto in tanto, si carica di pathos. “Into the Light” è un pezzo scandito dotato di un’immediatezza che sconfina nel pop, irrobustita da una sezione ritmica insistente che gli dona un bel tiro nonostante la sua prevedibilità di fondo, mentre “Wide Awake” rallenta per adagiarsi su un arpeggio malinconico e indolente. Gli strumenti elettrici tornano a farsi sentire nel prosieguo del pezzo, donandogli corpo pur mantenendolo saldamente entro i confini della ballatona stringicuore, in cui tutto è al posto giusto ma che non fa nulla per differenziarsi dal mare di pezzi simili. Va meglio con la successiva “Dancing in the Dark”, in cui si riprendono il piglio sicuro dell’opener e la carica anthemica di “Reincarnation”. Il risultato è un pezzo che, nonostante il fondo patinato e la struttura assolutamente ruffiana, trova la giusta quadratura del cerchio tra arroganza ed accessibilità e si stampa in testa fin da subito, pompando la giusta carica. Una melodia effettata e futuristica introduce “Raise Your Head”, pezzo dall’incedere più cupo del solito che, però, ritrova il suo piglio solare durante il ritornello enfatico e dalle sonorità vagamente esotiche. “Not in My Name” si fa notare per l’apertura dal retrogusto sciamanico e l’arpeggio squisitamente country che spunta ad intervalli regolari, ma anche – e qui aggiungo purtroppo – per le incursioni di growl totalmente gratuite, che come per “Reincarnation” sembrano appiccicate a forza per gridare adesso qui ci mettiamo la voce grossa per fare brutto. Per fortuna “I Remember Dying” cambia registro, distendendosi su un tappeto effettato e melodie dal retrogusto ipnotico per chiudere “Beyond the Black” con un taglio più solenne, raccolto. Il pezzo prende corpo pian piano, mantenendo il suo profumo rituale ma al tempo stesso languido, e pone il proprio sigillo in modo meno convenzionale su un album sicuramente ruffiano ma che, di certo, farà breccia in più di un cuoricino. Al di là dei campanilismi e delle critiche (più o meno pertinenti) che gli si possono muovere per il sentore di dietrofront opportunista, “Beyond the Black” è un bel lavoro, che si fa apprezzare per la sua resa immediata, accattivante ed energica.