Recensione: Beyond The Blood Red Horizon
I Midnight Rider sono al loro secondo LP con “Beyond The Blood Red Horizon”: una copertina sci-fi ad opera del talentuoso Dimitar Nikolov, che conquista per la sua patina datata.
Una città al tramonto che sembra venuta fuori dalle tavole di un qualche artista visionario edito nel 1970 dalla rivista fumettistica made in USA “Heavy Metal” o un qualche archetipo utopico alla Metropolis di Fritz Lang.
Una piccola minuzia da riservare a questa perla analogica ricca di sonorità autentiche e polverose, ma soprattutto provvista di quegli erroretti grossolani ed umani che conferiscono un sano suono hardrock alla “Richie Blackmore’s Rainbow”, conservando comunque l’imprinting tipico dell’ heavy dei primi Black Sabbath o dei Judas Priest come già in “Manifestation”, primo long-playing del 2017.
Un lavoro sicuramente difficile da assimilare oggi, ma che mantiene intatto le caratteristiche che poteva avere cinquant’anni fa, conservando un fascino semplice ed acerbo.
“Beyond The Blood Red Horizon” conquista fin dalle prime note per il forte accento teutonico del cantante, Wayne. Un timbro gradevole e robusto che nella trasposizione all’inglese risulta tuttavia come spigoloso, lievemente ruvido. Ben amalgamato, però, dalla chitarra passionale di Blumi che sembra quasi grondare un denso sciroppo.
Cliff al basso si abbandona ad una linea talmente smooth da aggiungere quella velata sensualità lievemente discinta al brano. La classe di un’impalpabile calza 10 denari che s’intravede sotto ad una gonna leggermente discostata all’altezza della coscia.
Se fosse il giorno del giudizio vorrei guardarlo volgere al termine su queste note: “planets are colliding / machines dominate these days / bloody last sacrifices / the sunrise leads the way / see the hate of doom / in our cold eyes”… le sonorità bluesy sono raffinatamente percepibili ed in effetti perfino il nome della band è un palese tributo agli Allman Brothers Band.
L’album si gioca prevalentemente su mid-tempo con loop di batteria da parte della new-entry Tim, tutto sommato piuttosto classic rock, anche se in chiusura punta tutto su una più incalzante “Always Marching On” che all’ attacco riprende abbastanza da vicino la celebre “Burn” dei Deep Purple, altro gruppo di cui viene marcatamente fuori l’influenza.
I riff di chitarra di Blumi (Metal Inquisitor, Metalucifer) in “Majestic Warfare” sono classic hardrock e si colorano talvolta delle tinte di Richie Blackmore o Jimmy Page.
Non dimentichiamo, però, che questo è un album davvero “old school”, talmente old che ai tempi l’heavy metal era ancora un prototipo che si stava sviluppando all’ interno di ignare fabbriche inglesi… per gli amanti del genere sarà pressochè impossibile non notare, infatti, quanto Wayne vesta i panni di un giovane Ozzy Osbourne, alterando la voce quel tanto che basta a definirsi nasale in: “No Man’s Land”, “Demons” o “Time Of Dying” o le citazioni della chitarra con qualche sporadico riff alla Iommi o ancora il pegno pagato ai Judas Priest di “Sad Wings Of Destiny” e “Rocka Rolla” in “Intruder” o “Your Parole”.
Quello che però si apprezza maggiormente dei Midnight Rider è paradossalmente proprio l’orgoglio di celebrare la propria individualità, in quanto questo album ad un attento ascolto non risulta affatto il lavoro di copia amanuense svolto da uno scriba sottopagato, bensì un lavoro ispirato da cui traspare una certa genuinità…
O un compendio delle migliori citazioni degne del miglior nerd dell’ heavy metal. A questo proposito ne consiglierei l’acquisto in vinile, da ascoltare e riascoltare per coglierne le sfaccettature complesse. Da conservare gelosamente, come tesoro di un epoca perduta o come si farebbe con una foto di grande valore affettivo.